26 Novembre 2014

Violenza sulle donne: cambiare sguardo per affrontare il problema

el sunto L’attenzione al problema della violenza verso le donne deve continuare oltre il 25 novembre. Evitando semplificazioni e narrazioni strereotipate.

Anche quest’anno la data del 25 novembre ha ricordato a tutti l’esistenza e la drammaticità della violenza sulle donne. Un fenomeno planetario, che viene declinato in maniera diversa in moltissime culture, se non in tutte. Femminicidi, matrimoni forzati di minori, mutilazioni genitali, violenza domestica, infanticidi femminili: un elenco incompleto, che già basta a far rabbrividire. Che le campagne mediatiche abbiano infine ottenuto una certa attenzione da parte delle autorità e del grande pubblico è certo un fatto positivo. Che le multinazionali stiano cominciando a modificare il linguaggio con cui si presentano nelle pubblicità è un buon segno, e così pure che si cerchi di cambiare il linguaggio con cui i media parlano di donne e di violenza. Ma forse non è ancora abbastanza per dire che stiamo davvero affrontando il problema.

Sono molti i piani su cui questo fenomeno va analizzato e affrontato. Quello simbolico, dove si costruisce l’immaginario culturale e dunque la cornice con cui pensare il fenomeno, le parole per raccontarlo. Quello politico-istituzionale, dove si dovrebbero definire le tutele per le persone colpite (le donne, i minori, i parenti), gli strumenti per contrastare il fenomeno, i fondi da destinare alle strutture e alle azioni di contrasto. Il piano politico-pratico, quello dove si muovono i servizi alle persone coinvolte come i centri antiviolenza e dove si inventano e si attuano azioni di sensibilizzazione e di lotta culturale per far conoscere il problema e la sua gravità a tutti i cittadini, a partire dalla scuola. Il piano giuridico, dove di fatto si giocano delle vere e proprie battaglie e si decidono concretamente le sorti degli individui coinvolti (non solo delle donne e dei loro aggressori, ma di tutti i loro familiari). E per finire, il piano psicologico e filosofico, quello che ci permette di comprendere le dinamiche che generano la violenza e ciò che essa mette a sua volta in moto.Malala sq

A livello simbolico, nel 2014, ricordiamo due eventi molto significativi per il mondo intero: il Nobel per la pace a Malala Yousafzai e la campagna HeForShe, lanciata dalle Nazioni Unite con il discorso di Emma Watson. Malala è una coraggiosa testimone della lotta contro l’oppressione delle bambine e delle donne, ma anche una ragazza che sta costruendo il proprio domani grazie allo studio: il conferimento del premio Nobel sancisce l’importanza che il mondo vuole dare a tutte le bambine e al loro futuro. Anche se parla principalmente di uguaglianza e non di violenza, l’intervento di Emma Watson è altrettanto significativo, perché chiede agli uomini di schierararsi a favore dei diritti delle donne, proponendo il paradigma di un femminismo accogliente – l’unico che può concretamente trovare “i numeri” per cambiare le cose.

emma thompson SQMa il messaggio di Emma Watson contiene anche un rilancio interessante sul piano psicologico: perché è capace di chiamare in causa la fragilità e il senso di inadeguatezza che abita in ciascuno di noi (donne e uomini), dandogli un valore positivo per il cambiamento invocato. Il mondo che ci vuole aggressivi per essere vincenti ha un lato oscuro, che di solito non viene raccontato. La competitività esige il sacrificio di una parte di noi, una parte che gioca un ruolo importante nel complesso delle nostre vite. E dall’aggressività alla violenza il passo è breve: qui tocchiamo un nodo problematico. Non è facile da accettare (tanto nella cornice di pensiero che vuole ogni donna oppressa dal patriarcato quanto in quella che dipinge i maschi minacciati dagli oscuri poteri del femminile), ma anche il violento, il maltrattante, è una persona che ha bisogno di aiuto. E molto probabilmente non sa come chiederlo.

In modi e con conseguenze molto diverse dalla donna, anche il maltrattante vive un disagio. Questo non comporta il giustificare le sue azioni: la violenza (di ogni tipo) è e resta un comportamento inaccettabile: moralmente, socialmente e giuridicamente. Ma essa va anche considerata come una risposta che proviene da un’inadeguatezza personale: il violento non sa formulare una risposta migliore per fare fronte alle situazioni che vive, in questo caso, nella relazione di coppia. Ne è consapevole? Molto probabilmente no, o lo è solo in parte: di conseguenza è incapace di chiedere e trovare aiuto per uscire da questa difficoltà, e persevererà nei comportamenti violenti.

Il movimento delle donne si interroga sulla violenza e la contrasta in modo sistematico da almeno mezzo secolo: è il femminismo del secondo dopoguerra ad aver sviluppato l’autocoscienza femminile, senza la quale il lavoro dei centri antiviolenza non si sarebbe mai sviluppato com’è oggi. Oggi, per fortuna, una donna maltrattata, una volta deciso di abbandonare un partner violento o controllante, può (va ricordato: andando comunque incontro a grandi difficoltà) contare in molte città sui centri antiviolenza per svincolarsi da una situazione pericolosa. E può trovare occasioni per capire e per capirsi, per iniziare a cercare una nuova strada. Non altrettanto si può dire per il maltrattante.

Questo è un problema per la società e per la donna, prima ancora che per lui: niente garantisce che si comporterà in modo diverso con eventuali partner successive. Niente gli impedirà, sicuro com’è di aver ragione, di continuare a perseguitare la ex compagna con azioni legali, o a continuare a esercitare su di lei violenza psicologica o economica, o di ostacolarla con angherie ogni volta che ne avrà l’occasione. Niente gli impedirà, neppure dopo le eventuali sconfitte in tribunale, di continuare a raccontare la propria versione dei fatti ad amici e parenti, dipingendosi come vittima, denigrando la compagna fuggita e raccogliendo consensi. E non sto descrivendo gli scenari peggiori.

Insomma: continuando a comportarsi da “maschio alfa” (un modello che per parecchi tratti la società continua a considerare positivo), rinunciando a prendere consapevolezza e ad affrontare le proprie difficoltà psicologiche nel gestire le relazioni con l’altro sesso, nascondendo con altra violenza le proprie fragilità psichiche, il maltrattante continuerà a far danno: agli altri, e anche a se stesso. E su questo, i piani politico-istituzionale, politico-pratico, giuridico possono veramente poco. Qualcosa può muovere il piano simbolico, ma la partita più importante, in questo caso, si gioca sul piano psicologico. Solo con gli strumenti della psicologia e della psicoanalisi possiamo descrivere e comprendere in modo profondo, completo e senza pregiudizi la dimensione violenta in una relazione (in questo post di Costanza Jesurum c’è un ottimo esempio di questo sguardo complesso). Solo con gli strumenti della psicoterapia potremo portare alla luce i conflitti interiori che trasformano conflittualità in violenza. Senza questa dimensione di analisi come guida per l’azione concreta, senza un’attenzione verso tutte le soggettività ferite coinvolte, le trasformazioni giuridiche e simboliche, sociali e culturali di cui sentiamo il bisogno rischiano di venire fraintese e depotenziate.

Oltre a restare attenti al problema e al modo di raccontarlo, oltre a coinvolgere tutti nel cambiamento di prospettiva, dobbiamo dunque stare attenti a non semplificare le letture e le interpretazioni che diamo dei fatti. E cercare di vedere cosa c’è dietro ogni scorciatoia con cui costruiamo le nostre narrazioni.

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6 commenti a Violenza sulle donne: cambiare sguardo per affrontare il problema

  1. Sara Matijacic ha detto:

    Spero che questo post venga letto da molte persone, soprattutto da quelle che sanno solo colpevolizzare. In questi giorni invece le mie riflessioni ruotavano intorno a un articolo uscito sabato scorso su Pagina99, da qualche giorno anche online:
    L’articolo inizia con una triste verità: “Per un italiano su tre, la violenza domestica sulle donne è un fatto privato da risolvere dentro le mura domestiche, per uno su quattro se una donna resta con il marito che la picchia diventa corresponsabile della violenza.” http://www.pagina99.it/news/commenti/7549/Giornata-mondiale-violenza-donne-25-novembre.html

    Bene, forse dovremmo partire anche da questi stereotipi che per me sono la radice del problema.

  2. maja ha detto:

    personalmente apprezzo molto che a trattare questo tema su bora sia un maschio. grazie, paolo.

  3. Paolo S ha detto:

    Maja, che dire… grazie a te.
    Sara, per quanto riguarda gli stereotipi, io credo che siano alla base del maschilismo; quando si parla di violenza sulle donne si parla di qualcosa di più. Per cui ritengo che mutare l’immaginario (che qui ho chiamato il livello simbolico, mi perdoneranno i filosofi) sia essenziale per promuovere la parità, ma non sufficiente per comprendere e trattare adeguatamente il fenomeno della violenza di genere.

  4. Conte Vlad ha detto:

    bisogna dire che aggressività e competizione possono essere vissute positivamente, la questione sta nel dosarle e incanalarle

  5. Fiora ha detto:

    @4
    se per “dosare e incanalare” aggressività e competizione intendi mani tassativamente in tasca SEMPRE, a ridimensionare reciprocamente la lingua ci posso anche stare! 😉

  6. MARCANTONIO ha detto:

    Un uomo che alza le mani su una donna o fa peggio, e’ solo un debole e non e’ degno di chiamarsi uomo, un uomo la donna la difende, non le usa violenza.

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