26 Marzo 2013

Scampoli di storia: il rastrellamento di Longera del 22 marzo 1945

Rubrica a cura di Paolo Geri

Il 15 marzo 1945 la “Banda Collotti” compì un rastrellamento nella frazione di Longera: il villaggio si trovava in un punto strategico per il passaggio dei partigiani da Trieste verso l’ Altopiano Carsico. A Longera già nel 1944 era di conseguenza stata costruita una base logistica, un “bunker” come veniva chiamato, che consisteva in una piccola stanza mimetizzata dove potevano sostare di giorno dai quattro ai sei partigiani prima di scendere a Trieste per qualche missione o risalire, attraverso Monte Spaccato, verso Gropada e da lì alle zone controllate dai reparti del IX° Korpus.

Milka Cok di Longera era all’ epoca una giovanissima combattente partigiana: “Ljuba” era il suo nome di battaglia. Ecco il suo ricordo: “Il primo bunker venne costruito nell’ estate del 1944 sotto casa nostra, che si trovava proprio dietro quello che adesso è l’ asilo di Longera, una vecchia osteria dove allora si erano insediati i tedeschi. La gente entrava davanti ed usciva dietro sulla campagna. Era in una posizione ideale per quel tipo di movimenti. Poi ci accorgemmo di essere spiati ed un altro “bunker” venne costruito più su, dove ora c’ è il monumento. Consisteva in una piccolissima stanza ed in uno stretto cunicolo che portava sul monte. Allora avevo sedici anni, facevo parte dello S.K.O.J. cioè dell’ organizzazione giovanile del Partito Comunista Jugoslavo. Noi ragazzi avevamo ognuno una zona della città dove andavamo di notte a scrivere con vernice e pennello; la mattina, invece di andare a scuola, nascondevamo tra i libri, nelle borse, i volantini che venivano da Gropada e li portavamo in città. Poi accompagnavamo in Carso i giovani che volevano unirsi ai partigiani: davamo loro degli attrezzi agricoli e li portavamo attraverso Monte Spaccato, dove lavoravano quelli della “Todt” a fare fortificazioni, dicendo a questi che i ragazzi andavano a lavorare in campagna. Passavamo oltre, dopo un poco abbandonavamo gli arnesi ed i giovani andavano fino a Gropada da dove poi si sarebbero uniti ai partigiani.
Il 21 marzo 1945 venne su a Longera la “Banda Collotti” con Collotti in persona. La gente sospetta e schedata venne prelevata e condotta al centro del dopolavoro che si trovava in fondo al paese. C’ ero anch’io con la mia famiglia. Avevo due fratelli partigiani: eravamo quindi “sospetti”. Verso le 11 sentimmo i primi spari, mitraglie, bombe a mano. Capii subito che si trattava del “bunker” qualcuno aveva fatto la spia. Mi disse poi proprio uno della “banda Collotti” che c’ era in paese uno spione che andava di notte ad origliare sotto le finestre dei compaesani.
I partigiani rinchiusi nel “bunker” avevano deciso, se fossero stati attaccati, di attaccare a loro volta e di non lasciarsi prendere vivi dai fascisti. Durante l’ attacco dei fascisti al “bunker” morirono Pavel, che era il comandante, Stojan e Radivoj . Gli altri tre si salvarono nascondendosi dietro la nostra casa e si rifugiarono poi a Gropada. Ci portarono tutti fino al bunker dove erano stati messi in fila i morti. Volevano che dicessi i loro nomi ma mi rifiutai. Allora mi spararono una raffica che però non mi colpì e svenni. Al pomeriggio Collotti mi fece portare nella sede dell’ Ispettorato in via Cologna. Mi disse che sapeva tutto di me, di quello che avevo fatto, del cibo che portavo nel bunker, di ciò che facevo a Boršt e a Gropada. Io negai di essere la figlia di Rodolfo Cok, lui fece per picchiarmi ma si fece male da solo. Allora mi fecero ruzzolare giù per un piano di scale. Il giorno delle Palme mi portarono nella stanza della tortura: mi legarono ad una sedia, mi torturarono con l’ elettricità, mi bruciarono con le sigarette, mi picchiarono. Una ragazza ebbe le braccia spezzate, un compagno morì poco dopo. Nonostante tutto non parlai e dopo dieci giorni ci portarono al Coroneo dove ci passarono alle SS. Là ci raggiunsero anche mia madre ed altri paesani di Longera. Sentivamo di notte i camion che venivano a prendere la gente per portarla in Risiera, ma anche al Coroneo riuscivano a girare i volantini che ci facevano comprendere come la guerra stesse per finire. Ci dissero che ci avrebbero portato in Germania e ci condussero a piedi fino a Roiano: lì gli uomini vennero caricati su un camion mentre noi donne aspettammo tutto il giorno che venissero altri camion per portarci via, ma non venne nessuno, perchè a nord le strade erano già bloccate. Così ci riportarono al Coroneo e dopo ci rimandarono a casa. A Longera la nostra casa era distrutta. Pochi giorni dopo arrivarono i partigiani”.
Vediamo adesso come l’ episodio viene raccontato nel rapporto dell’ Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza inviato dall’ Ispettore Generale di Polizia Gueli. “Ieri mattina all’ alba, continuando l’azione intrapresa il 13 marzo la squadra speciale politica di questo organismo, agli ordini del Vice Commissario dottor Collotti, iniziava una operazione di rastrellamento in località strada per Longera, segnalata quale covo di altra pericolosissima banda del V.D.V. Accerchiata la località, veniva iniziato il rastrellamento, nel corso del quale veniva individuato un bunker ove si rinvenivano solamente parti di armi, effetti di vestiario, documenti di corrispondenza varia della V.D.V. in parte bruciata. Poi venne individuato un secondo bunker sul cui ingresso si accendeva un violento conflitto fra gli agenti e i banditi asserragliati all’ interno. Pertot Andrea (1901 di Longera) padre del bandito Danilo Pertot, che aveva guidato gli agenti alla scoperta del bunker restava ucciso sul colpo da una raffica di mitra dei banditi. Il collaboratore di questo organismo Soranzio Ferruccio, classe 1927 da Ronchi dei Legionari, veniva ferito da due colpi di proiettile all’ emitorace sinistro e l’ agente di polizia Sica Giuseppe dallo scoppio di bombe a mano lanciate dall’ interno del bunker. I banditi cercarono col fuoco di rompere l’ accerchiamento degli agenti che uccidevano tre banditi mentre altri due riuscivano a sottrarsi alla cattura dandosi alla fuga. Sono ancora in corso le indagini per la completa identificazione dei tre banditi uccisi, ma si è già accertato trattarsi del noto e pericoloso bandito Paulo comandante del 1° gruppo V.D.V. responsabile di numerosi efferati delitti tra cui l’ uccisione dell’agente di polizia Pastorin Bruno della locale Questura, l’ attentato terroristico della funivia Trieste-Villa Opicina, del pericoloso bandito Stojan comandante il 2° gruppo V.D.V. e di Mikulic Dušan alias Boris, comandante del V.D.V. della città. Nel bunker è stato sequestrato abbondantissimo materiale di ogni specie. Reputo, da ultimo, doveroso segnalare all’ Eccellenza Vostra il comportamento coraggioso e risoluto del Vice commissario dottor Collotti e di tutti gli uomini alle sue dipendenze in particolare modo l’ agente Sica e del collaboratore Soranzio Ferruccio, i quali benchè feriti rifiutavano ogni soccorso per non distrarre i propri camerati dalla lotta. Per ognuno di essi mi riservo di riferire con separato rapporto proponendo per una giusta ricompensa i più meritevoli”.

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5 commenti a Scampoli di storia: il rastrellamento di Longera del 22 marzo 1945

  1. ufo ha detto:

    Traduco dal a href=”http://www.primorski.eu/stories/Alpe-Jadran/217908_v_palmanovi_muzej_odpornitva/”>Primorski di ieri:
    »A Palmanova un museo della Resistenza

    La regione Friuli Venezia giulia allestirà un museo della Resistenza nella caserma Piave di Palmanova (Friuli). Con la proposta della presidente della giunta regionale Debora Serracchiani si è dichiarato d’accordo il locale sindaco Francesco Martines, che ha ispezionato la caserma assieme alla presidente. Secondo dati ufficiali i fascisti, collaboratori dei nazisti, avevano rinchiuso e torturato a Palmanova circa settecento persone, di cui 465 non sono mai tornate a casa. Le vittime erano sia partigiani che civili, i loro carnefici appartenevano alle unità collaborazioniste fasciste Borsatti e Ruggiero, che in pratica “gestivano” la caserma.Tra le vittime anche il comandante partigiano Silvio Marcuzzi (nome di battaglia Montes), a capo dell’organizzazione antifascista Intendenza Montes che riforniva i partigiani del Friuli meridionale. A visitare la sede del futuro museo con la presidente della regione ed il sindaco martines anche la storica Irene Bolzon, autrice di un libro sulle torture nella caserma Piave, che ha descritto la storia del luogo. La Serracchiani si è detta convinta che il museo, nella sua funzione spiccatamente didattica, prenderò in considerazione anche la storia dei non distanti lager dascisti di Gonars e Visco.«

    Perché la notizia è degna di nota? Perché questa caserma Piave sembra proprio la fotocopia di via Cologna, e perché possiamo ancora una volta piangere l’occasione perduta. Alla proposta di trasformare il triste luogo in un museo, infatti, la città ha risposto »no se pol« per mancanza di fondi. Qualcun’altro, evidentemente, ha risposto diversamente e alla fine i soldi li ha trovati. Se ci fosse ancora in giro Primo Rovis (ve lo ricordate?) avrebbe tuonato che i soldi i friulani ce li hanno rubati, com’era suo solito – perché quel museo avrebbe potuto essere in via Cologna.

    Si vede che era destino: a Palmanova il museo della Resistenza, da noi sette metri di statua alla triste figura del vescovo impostoci dal fascismo. Ci sarà sicuramente una morale, in questa storia.

  2. El baziloto ha detto:

    Vescovo impostoci dal fascismo, grazie ad un papa nazista. Poi sono venuti i papi comunisti, alla fine c’è stata la Guerra Mondiale dei Papi e se n’è uscito vincitore il papa argentino neocomunista dopo aver mandato in pensione l’ultimo dei papi nazisti.

    Giacché la storia – fin da sempre – è una lotta continua fra fascismo e comunismo.

  3. El baziloto ha detto:

    Dimenticavo: tutto il testo di Geri è un estratto da “Operazione fiube a Trieste” di Claudia Cernigoi. Almeno indichiamo la fonte.

  4. ufo ha detto:

    Mi par di avvertire un certo sentore di biasimo nel commento del bazilosauro, ma non è che si capisca proprio bene quale parte esattamente gli pruda. Vado per tentativi: sarà magari la constatazione che l’estremista in tonaca è stato comandato a Trieste al preciso scopo di smantellare l’opera di civiltà portata avanti dal suo predecessore Luigi Fogar:
    Nel 1925 la prospettiva dell’assimilazione graduale di sloveni e croati (alla quale era favorevole anche parte del clero italiano) cedette il passo a quella della snazionalizzazione in tempi brevi. In particolare per quanto riguardava il clero, al sostegno finanziario a sacerdoti e religiosi attivamente schierati nell’opera di “italianizzazione” si affiancò la repressione del clero allogeno, volta ad ottenerne l’allontanamento…
    La difesa del diritto dei fedeli all’istruzione religiosa e predicazione nella lingua materna fu un punto su cui si dimostrò irriducibile. Con la pastorale del febbraio 1925 intervenne per la prima volta pubblicamente, a favore dei molti sacerdoti divenuti bersaglio di accuse “ingiuste” da parte di “persone anche influenti”…
    Si inasprivano intanto le divisioni all’interno del clero diocesano, mentre la nomina nel 1932 a prefetto di Trieste dell’ex squadrista C. Tiengo segnava l’inizio dell’ultimo pesante attacco al vescovo. La sua posizione fu aggravata dal fatto di essere diventato agli occhi della comunità slovena e croata, e negli ambienti iugoslavi, una figura simbolo. Ebbe inizio nel 1934 la violentissima campagna di stampa che, due anni più tardi, lo avrebbe costretto alle dimissioni. In un discorso pronunciato il 3 gennaio ai chierici del seminario di Gorizia – il cui contenuto venne divulgato, in una versione fortemente strumentale, dal Piccolo di Trieste – egli deplorava le attuali divisioni e riaffermava una volta di più il diritto di ciascuno di usare la propria lingua… La campagna, che non risparmiò al vescovo le accuse più basse ed infondate (come quella di appropriazione indebita), culminò, nella primavera del 1936, nella proibizione da parte del prefetto di celebrare la liturgia slovena in alcune chiese cittadine.

    Interessante notare che il Dizionario biografico degli Italiani della Treccani dedica alla figura di Fogar, del tutto ignorata nella metropoli cosmopolita, uno spazio del tutto ragguardevole (ben più delle poche frasi che ho copiato) di ben 2.167 parole esclusa la bibliografia, mentre al tizio a cui si vogliono fare sette metri di catafalco dedica esattamente… trentasei parole, nome e date di nascita e morte comprese. Sarà che alla Treccani sono slavokkomunisti? O è da ritenersi rilevante il fatto che a santificare subito l’estremista sono più o meno gli stessi che insistono perché nella galleria dei ritratti dei sindaci tergestini resti a perenne vergogna anche il brutto ceffo del podestà imposto dalle SS. Cose che capitano. Da certe parti più spesso che altrove.

    Bella figura, il vostro Santin, comunque. Fin quando il fascismo o, in assenza, l’alleato germanico comandavano era tutto un bellicoso proposito, altro che porgere l’altra guancia cicciottella. »I partigiani vanno combattuti perché nemici dell’Italia« scriveva il nostro al prefetto Cocuzzai il 20 agosto 1943 [G. Botteri, Antonio Santin: Trieste 1943-1945, Udine 1963, pag. 15 per i più fastidiosi]. Però col cambiare dei tempi e delle convenienze il nostro non ci metterà molto a scaricare l’amata ideologia e anzi a denunciare l’incauto che lo avesse tacciato di filo-fascismo presente o passato. L’incauto in questione rispondeva al nome di Gaetano Salvèmini, che in uno scritto faceva notare la vicinanza al fascismo (e una certa sua disinvoltura nell’interpretare il mandato vescovile) del nostro settemetriepassa. Coimputati col professor Salvèmini il Primorski dnevnik e il Corriere di Trieste, che avevano pubblicato il pezzo (il primo che chiede cosa abbia fatto il Piccolo finisce punito per insolenza). Diffamazione, strepitò il prelato, lesa maestà ed onorabilità. Lui filofascista? Giammai! Che glielo dimostrassero, oppure ne pagassero il fio. Glielo dimostrarono, sembra… Il Salvèmini aveva tratto il materiale a base del suo pezzo da un volume uscito in varie lingue nel 1936, Life-and-death struggle of a National Minority di Lavo Čermelj, un esule fuggito da Trieste per le persecuzioni italiane. La corposa opera aveva procurato all’autore una condanna a morte da parte del pseudo-tribunale di regime nel 1941, ma nel 1953 il Čermelj era più vivo e combattivo che mai e, saputo che il quando-mai-filofascista contestava i punti del suo volume che lo riguardavano, si mise all’opera scrivendone un altro più dettagliato. Titolo: Il vescovo Antonio Santin e gli Sloveni e Croati. Oggi lo chiameremmo un instant book, ma sono certo che il Santin lo avrà coperto di ben altri epiteti. L’unico fatto certo è una copia di questo libro pervenne per vie (probabilmente) ecclesiastiche nelle sua mani e, guarda la combinazione, pochi giorni dopo il bellicoso vescovo ritirava tutte le sue denunce e querele, senza spiegazioni e senza commento. Cavoli. Vorrei io essere in grado di scrivere così.

    Non che al prelato pesasse più di tanto dover svicolare diplomaticamente quando il discorso si avvicinava pericolosamente al tema delicato del fascismo suo o di altri. Forse gli mancavano gli eia eia baccalà ed il fraternizzare con gli orbaci, ma nella Trieste del dopoguerra poteva ben consolarsi ripiegando sull’antislavismo sempre di moda. La sua crociata contro la nomina ad assessore cittadino un un cittadino – orrore – non di madrelingua italiana giunse fino al punto da fargli scrivere frasi minacciose anche contro i suoi amati democristiani, sindaco Franzil in testa [Vita nuova, 30 luglio 1965, pag. 2310]. Insomma, il personaggio si è ben che dato da fare per meritarsi un monumento imponente (come se non ci bastasse l’eco-mostro a forma di formaggino). Sono i fatti della vita: sette metri di catafalco a lui, una via al Grilz, una via al “giornalista” Granbassi, ma Cecchelin sarebbe controverso (!) e le vittime di via Cologna figurarsi… mica fanno parte delle controverse vicende, né?

    Devo comunque lodare la nobile intenzione del bazillodonte nel prestare solerte attenzione acché la storica Cernigoi abbia riconosciuto il merito che le compete per la sua preziosa opera divulgativa. Magari esagera: visto che si tratta di testimonianze e di documenti riportati pari pari e con fonti primarie debitamente identificate, tale puntiglio sul citare la pubblicazione da cui sono stati tratti mi sembra come insistere per sapere se il volume proviene dalla libreria personale del buon Geri o è stato preso a prestito in biblioteca. Ma non perdiamoci in queste bazzecole: la buona intenzione c’era, e quindi vada al bazilosauro un cenno di approvazione. Mi permetterò di completare l’opera segnalando al lettore interessato che l’intera pubblicazione si può scaricare in formato PDF. Le parti citate stanno a pagina 65, ma se avete un po di tempo vi inviterei pure a proseguire la lettura affrontando le pagine dalla 66 alla 73 – molto istruttive.

    Mancherei ai miei doveri di istigatore di zizzania se non ricordassi infine al gentile lettore che è uscito quest’anno un volume assai importante, che finalmente colma un colpevole vuoto nella storiografia cittadina: La “Banda Collotti”, Storia di un corpo di repressione al confine orientale d’Italia, edito da KappaVu. Autrice sempre la benemerita Claudia Cernigoi (mentre i tanti baroni accademici che intascano emolumenti e prebende con le nostre tasse si guardano bene dall’argomento, chissà perché). Non avendolo ancora terminato, e non essendo mio costume raccomandare libri senza leggerli, mi astengo dall’influire sul vostro giudizio – leggetevelo da soli – ma certamente sono trecentocinquanta pagine di cui si sentiva la mancanza, e con ogni edizione di questo genere si fa sempre più stretto il tappeto sotto cui si vorrebbero nascondere le parti scomode della storia di queste terre.

  5. ufo ha detto:

    Ti pareva: mi sono scordato il link. Eccolo.

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