13 Gennaio 2010

Da Belgrado a Trieste senza visto

di Lorenza Masè

Trieste Dal 19 dicembre sono stati aboliti i visti per i cittadini di Serbia, Montenegro e Macedonia. La nuova libertà a lungo attesa ha le sue regole e i suoi esclusi. Viaggiano senza visto i cittadini serbi, montenegrini e macedoni con passaporto biometrico, possono restare in un paese UE per un massimo di 90 giorni nell’arco di 6 mesi per motivi turistici o simili. Per lavorare invece serve comunque un permesso speciale. La liberalizzazione dei visti non vale per i cittadini della Bosnia e del Kosovo. Ogni giorno tre diverse compagnie di autobus – Fudeks, Litas, Sanatrans – collegano i 623 km che corrono tra Belgrado e Trieste. Un biglietto andata e ritorno a seconda della compagnia varia dai 65 ai 100 euro.

Stazione delle autocorriere di Trieste, 26 dicembre, 01:00 del mattino. Autobus pieno in arrivo da Belgrado, circa 70 passeggeri. Molti per la prima volta hanno viaggiato senza visto. Molti sono venuti a trovare i familiari che già da tempo vivono e lavorano a Trieste. Una volta scesi dall’autobus, per tutti c’è qualcuno ad aspettarli, per tutti qualcuno da rivedere. Adesso senza visti sarà più facile muoversi. Una ragazza aspetta di riabbracciare il padre e la sorella che hanno fatto un viaggio lungo più di otto ore. “Non venivo a Trieste dal 1981” – mi dice il padre della ragazza – ma dagli anni ‘60 e fino alla fine degli anni ‘70 ci venivo a fare shopping”.

Per gli jugoslavi Trst era come un centro commerciale “arrivavamo solo per un giorno, subito alle bancarelle di Ponte Rosso, per il rinnovo del guardaroba o per comprare “barbike” (barbie), cisme (stivali), caffè, qualcuno anche oro e l’abito da sposa, ma soprattutto farmerke (jeans). Gli jugoslavi in quegli anni hanno fatto la fortuna di molti jeansenari triestini e anche di qualcuno che contrabbandava tra Trieste e la Jugoslavia. “Non mi interessa più viaggiare, adesso sono vecchio – ha proseguito il belgradese – ma adesso quando voglio posso fare visita a mia figlia e al mio nipotino che vivono a Trieste. E se hanno bisogno di me posso partire subito senza dover raccogliere milioni di documenti, senza fare code all’ambasciata, senza aspettare il visto”. Anche le due sorelle si stringono felici: “Finalmente anche i ragazzi serbi viaggeranno e conosceranno il resto dell’Europa. Ci sentiamo libere”. “Questo non significa – aggiunge la più grande – comperare un biglietto di sola andata per scappare dalla Serbia. Come tutti i giovani vogliamo muoverci, soddisfare la curiosità e tornare a casa con un’esperienza nuova”.

Ho scritto un messaggio a Vuk, un mio amico serbo di Belgrado per dargli il benvenuto in area Schengen. Non è mai uscito dal suo paese. Con la libertà di movimento sempre in tasca, scritta sul mio passaporto italiano e ricevuta per diritto di nascita, non riesco a capire cosa voglia dire non poter viaggiare. Penso a un prigioniero in una gabbia. Sono contenta, lo invito e lo aspetto. “Grazie. Era anche ora – mi ha risposto – che ci abolissero i visti dopo 18 anni”. I 25enni della Serbia di oggi, ne avevano 15 nel 1999, quando dal cielo piovevano le bombe della Nato. E sono cresciuti nell’embargo e nelle sanzioni. Senza poter uscire, inevitabilmente qualcuno di loro ha coltivato la sensazione di essere respinti dall’Europa.

Aboliti fisicamente i visti resta ancora la percezione di una frontiera interiore e mentale. Un po’ il gioco dell’ innamorato respinto: a lungo ti ho desiderato e non mi hai voluto. Adesso per ripicca nemmeno io ti voglio.
E poi c’è un altro problema, molto meno filosofico. Dove trovo i soldi – mi ha scritto Vuk – per venire a trovarti a Trieste”. In altre parole, non basta solo il desiderio. Per viaggiare serve la moneta sonante. Sono un po’ triste. E penso che la medaglia per davvero ha sempre due facce. “Ma appena ce li ho – diceva il messaggio – prendo l’autobus”.

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