27 Ottobre 2009

Cormons- Parte Prima: Ken Vandemark’s Resonance (e le sue rondini)

kenVandermark_2

Diario di un fine settimana trascorso all’insegna del jazz a Cormòns, in occasione del festival “jazz & wine of peace”. Parlare di jazz è complicato per tutti, perché è l’ultima vera musica d’élite rimasta. Tutto è stato sdoganato, in fatto musicale: persino la classica ha migliaia di brani famosissimi che anche un profano ascolta volentieri, pur non capendocene una mazza. Artisti come Einaudi e Allevi, poi, hanno (finalmente?) ratificato la fusione tra il classico e il pop, il sacro e il profano – almeno in Italia. Col jazz è decisamente più complicato. Il jazz non fa parte della cultura popolare in senso stretto. Nessun passante, interrogato a caso, riuscirà a citarvi il titolo di uno standard jazz famoso. E, soprattutto, il jazz non è questione di musica: è una dimensione leggendaria. E’ un Pantheon di alberi genealogici che risalgono su su fino alle prime divinità, qualche sconosciuto Prometeo uscito da New Orleans alla fine del milleottocento. Insomma, è una delle vere e poche nicchie rimaste praticamente intoccate. Perché, se pure tutti possono ascoltarlo, pochi ne hanno voglia e (siamo realisti) riescono a reggerlo per più di cinque minuti.

E’ tanto più grande la mia sorpresa, quindi, ogni volta che mi rendo conto di quanto sia popolare questo genere nella Bisiacheria (che il mio computer si ostina a correggere in bislaccheria, ma questa è un’altra storia). Il festival di Cormòns riesce sempre a trascinare fin qui dei nomi di tutto rispetto (l’anno scorso io mi mangiai le mani per non esser riuscito a vedere Tommy Emmanuel) e una folta audience di appassionati, dediti in egual misura al vino ed al jazz che vi scorrono copiosi.

Ken Vandemark, quindi! Il quale capitana un’orchestra di dieci elementi, o forse era una compagnia teatrale. Qualcosa a metà strada tra le due. Vederli suonare è come quando d’estate le rondini volano sopra il tetto al tramonto e riempiono l’aria di strida. Charlie Parker – si dice – amava suonare all’aperto ed aspettava che gli uccellini, incuriositi dalla sua musica, si avvicinassero, e poi ne riproduceva il canto. Dialogava con loro. Un bravo jazzista è quasi un uccello. E anche senza scomodare le divinità, i dieci della “Ken Vandemark’s Resonance” ci riescono, e sono un po’ rondini un po’ gazze ladre.

La cacofonia che la “Resonance” crea è un dialogo tra musicisti intelligenti ed autoironici, che non si perdono mai nell’eccessivo e che riflettono una notevole (e paziente) ricerca del suono. A volte pare quasi di smarrirsi, ma anche uscendo dalle linee melodiche principali del pezzo si ha l’impressione di assistere a qualcosa che si regge perfettamente in piedi per il solo fatto di essere in movimento, si abbandona la musica per concentrarsi sui rapporti che guidano i musicisti nell’esecuzione ed i loro dialoghi. Come se fossero, per l’appunto, attori. Del resto, mi sono sempre detto che non ascolto jazz per un solo motivo: il jazz, su disco, non ha mica molto senso. Va ascoltato solo ed esclusivamente dal vivo. In teatro o, meglio ancora, in un locale. Perché il grande fascino del jazz sta nell’improvvisazione (in effetti, ora che mi ci fate pensare, non hanno molto senso nemmeno gli spartiti nel jazz). Ma soprattutto, perché una registrazione non può dare ragione di tutti i sottili equilibri che si tendono tra i musicisti. O anche solo della loro espressione. Motivo per cui, anche se non vi piace il jazz, secondo me dovreste provare ad andare, prima o poi, ad un concerto. Probabilmente cambiereste idea ed il festival a Cormòns è un’ottima occasione per farlo. Per cui, l’anno prossimo, ricordatevene.

Tag: , , , , .

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *