6 Ottobre 2009

L’intervista al Rettore Francesco Peroni

peroni diritto

Mercoledì scorso Bora.La ha incontrato Francesco Peroni nel suo studio di Rettore in piazzale Europa per un’intervista. Peroni, che ha fatto una carriera da studente a Pavia («per il suo modello di college sembra Oxford»), è stato confermato in primavera a capo dell’ateneo giuliano. A rivotarlo, come candidato unico, 529 dei 1037 (baroni e non) aventi diritto. Peroni ha 48 anni e dal 1998 è titolare della cattedra di Diritto penitenziario alla Facoltà di Giurisprudenza. Nel 2000 era direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche, nel 2003 Preside della Facoltà di Giurisprudenza. Nel 2006, quando è stato eletto alla guida dell’ateneo giuliano, era il rettore più giovane d’Italia.

Enrico Maria Milič: Rettore Peroni, in un’ora di macchina abbiamo altre tre Università – Udine, Litorale e Nova Gorica – e i doppioni di corsi sono svariati. Qual è il vostro impegno su questo tema?

Francesco Peroni: Noi, tanto per cominciare, abbiamo chiuso tutti i doppioni esterni. Ad esempio scienze del servizio sociale a Pordenone è stata chiusa, tra l’altro non senza costi. Così sta avvenendo, sempre a Pordenone, per la sede di ingegneria che sta confluendo all’Università di Udine. Poiché non crediamo nella sensatezza dei doppioni e li combattiamo, li abbiamo chiusi. Risultato? La comunità pordenonese si è offesa, imbestialendosi e togliendoci i finanziamenti che alimentavano nell’ordine di decine di migliaia di euro quei corsi. In più mi sono ritrovato gli studenti pordenonesi a fare perno su Trieste, con un notevole impatto sull’edilizia e sulle strutture atte ad accoglierli. Abbiamo dovuto reperire sul mercato sale apposite, pagandole sonanti denari. Però metto in chiaro che non voglio fare la vittima e, se capitasse, tirerei ancora quel tratto di penna sul doppione.

emm: Parliamo dell’apertura della sede della Facoltà dell’Architettura a Gorizia. C’è stato un dibattito ben dipanato dal Piccolo in cui si è detto che la Fondazione aveva versato a suo tempo 750 milioni per finanziare la neonata Facoltà di Architettura.

La Fondazione ha investito per 5 anni negli stipendi dello staff, finito quel periodo l’Università si è fatta carico del prosieguo del rapporto con questa docenza già assunta a tempo indeterminato. Quindi il debito che noi abbiamo nei confronti della Fondazione CRTrieste è storico, mi guardo bene dal negarlo. Ma essa non è attualmente investitore sulla vita attuale della Facoltà di architettura, posto che i docenti reclutati a suo tempo sono ormai a libro paga dell’Università e che le strutture edilizie ospitanti sono quelle di cui si è sempre fatto carico il bilancio di Ateneo.
Per completare il quadro a Gorizia si va ad utilizzare un immobile di proprietà dell’Università, un caso più unico che raro per quanto riguarda la presenza dell’Ateneo nel patrimonio edilizio al di fuori della città. L’immobile goriziano è del resto poco utilizzato. Anche dal punto di vista della piccola intendenza la nostra operazione, una volta avvenuto il trasloco, e quando sarà a regime, avrà un impatto positivo in termini di risparmio sull’affitto di Sant’Anastasio.

emm: La conclusione implicita che mi viene da tirare è la seguente: i triestini hanno contribuito con questi soldi ma l’Università deve far quadrare i conti e i soldi son persi…

No, io non credo siano stati persi. Salvo che noi intendiamo che il fatto che un professore universitario pagato da una Fondazione debba essere incatenato alla città dove quest’ultima ha sede. Ma quand’anche fosse così, noi avremmo assolto la nostra missione nel tempo in cui la Fondazione ha pagato. La verità è che, su un piano un po’ più alto, bisognerebbe ricordarci che i corsi restano di Trieste, seppur con sede a Gorizia, e rafforzano anche la collettività triestina. Pur essendo un critico dell’espansione territoriale delle Università, ritengo questa operazione abbia portato ad un rafforzamento, sotto diversi profili.

emm: Qual è secondo lei l’incidenza dell’università sull’economia di Trieste?

L’Università, che in Italia è la massima produttrice di ricerca, fa ricerca di base che non ha immediata percettibilità sull’azienda e, non necessariamente, sull’azienda del territorio.
La nostra traduzione sul mondo economico è la parte della ricerca applicata che ha immediato riverbero. Qui qualche progresso c’è stato. Se guardassimo ad un indicatore, il numero degli spin-off – le imprese nate da idee, invenzioni e brevetti universitari – si noterebbe un’escalation non da poco. Mi pare oggi se ne contino 13, di cui 6-7 costituitosi negli ultimi 3 anni (il suo mandato, ndr). Sicuramente sono micro-imprese che non incidono in termini di domanda di forza-lavoro sul territorio, però possono avere sviluppi rilevanti, uno di questo è connesso alla Mitsubishi.

emm: Parliamo ancora di Architettura. Un’economista, Giacomo Borruso, è a capo della Facoltà come Preside. Guardando il cv di Borruso e le sue pubblicazioni non c’ho trovato niente da riferire all’architettura.

Beh lui è un’economista dei trasporti, quindi si occupa di infrastrutture, in un’ottica che può essere d’interesse a certe scienze della costruzione.

emm: L’opinione pubblica chiede che siano applicate politiche meritocratiche all’interno delle istituzioni pubbliche e quindi anche dell’ateneo di Trieste. Guardiamo all’estero: non c’è nessun economista che sia responsabile della Facoltà di Architettura. A Trieste è così, lei lo trova normale?

Lo trovo compatibile con il sistema italiano. Da noi le Facoltà sono comunità che scelgono il Preside per elezione. Parlo rappresentando un’istituzione: non potrò mai dirle che Borruso è inidoneo a fare il Preside; è statisticamente improbabile che lo faccia ma è consentito. E a me deve bastare che sia consentito…

emm: Altro caso concreto. Questa università ha ingaggiato Betina Lilian Prenz, Cecilia Prenz e Juan Octavio Prenz. Tutti ‘esperti’ di lingua e cultura spagnola. Evidentemente non è un caso di omonimia. Le devo chiedere perché non interviene su questi casi di nepotismo.

Le pongo una domanda: quale azione avrei potuto intraprendere?

emm. Lei ritiene che una situazione così sia eticamente sostenibile? Magari basterebbe una sua dichiarazione sulla stampa per tracciare un limite.

Se i nomi a cui si riferisce sono docenti di ruolo, la loro posizione si rifà a concorsi che sono agli atti incontestati in epoca in cui io non ho potuto sindacarli perché non avevo ancora iniziato il mio mandato. Dopodichè io non posso stabilire solo in base alla parentela se queste persone sono indegne all’insegnamento. Magari in questo caso che lei cita sono tutti e tre dei geni.
Mi rammarico del fatto che non abbia mai ricevuto informazioni dall’interno della pubblica amministrazione, dove non sempre la trasparenza è all’ordine del giorno e la disponibilità a denunciare dei casi sospetti manca, ma non ho il potere di rimediare ad un concorso che è corretto formalmente. Potrei sembrare “diplomatico”, ma queste sono le carte che ho in tavola. So benissimo che nel mio organico c’è una percentuale, probabilmente non banale, di soggetti improduttivi ma dal punto di vista ordinamentale non ho nessuna misura da attuare. Una volta che il professore che non produce è di ruolo diventa intangibile. E analogo si potrebbe dire per il personale tecnico amministrativo.
E’ emerso da più parti la grande riforma tabù in Italia è quella del pubblico impiego.

emm. Nella mia esperienza di laureato nel 2005 a Trieste, gli studenti stranieri venivano di solito dall’Africa e dall’ex blocco orientale. A Belfast, dove ho studiato nel 2007, gli studenti venivano da tutto il mondo. La domanda per iniziare è: potrebbe spiegare perché l’Università di Trieste è così poco attrattiva nei confronti dei giovani dell’Europa occidentale e del resto del mondo?

Io ravviso una principale causa di questa minore competitività italiana, non solo triestina. La riassumo nell’assenza di strutture ricettive adeguate per competere con paesi europei più avanzati. Questi ultimi offrono una serie di complessi e infrastrutture agli studenti tali da rendere più attrattiva la sede. Detto questo, noi abbiamo una percentuale di recettività che va sopra la media italiana, prova ne sono i numeri: tolte le università per stranieri (Perugia e Siena), la nostra città universitaria sia quella con il più elevato tasso di stranieri in Italia. Parliamo quindi dalla postazione italiana più avanzata dal punto di vista dell’internazionalità.

emm: Prendiamo la facoltà di Lettere e Filosofia che io ho frequentato a Trieste. Non saprei dire per che cosa si qualificasse in termini di eccellenza, sia a livello di ricerca che di didattica, rispetto a qualsiasi altro ateneo italiano. Mi meraviglia che non dica niente sugli stimoli didattici che l’Ateneo triestino potrebbe offrire ad uno studente straniero.

Esistono esperienze di particolare eccezionalità in questo Ateneo. Mi riferisco per esempio ai due curricula nel corso di laurea triennale in materia di Managment internazionale e innovazione della Facoltà di Economia. Un modello sul quale abbiamo puntato attraendo anche finanziatori esterni, nell’intendimento di favorire una formazione attrattiva per l’estero, internazionale e utile a formare quadri per questi grandi gruppi imprenditoriali, essenzialmente gruppi assicurativi. Questo modello ne segue altri che c’erano già in ambito di formazione internazionale come ad esempio quelli della Facoltà di Scienze.

Davide Lessi (dl): Se c’è una pecca che ho constatato a Trieste, da studente della specialistica in scienze politiche internazionali, è proprio questo tentativo di darsi nella forma un’ottica internazionale e poi essere scadenti nel contenuto e nei docenti incaricati a trasmetterlo. L’istituzione di questo corso specialistico in scienze internazionali mi sembra a posteriori un’etichetta per attrarre o far rimanere qualche studente in più nelle facoltà triestine…

Sicuramente nel mercato dell’Università esistono anche messaggi deboli, vale a dire confezionati a modo un po’ pubblicitario. Il punto certo è che una didattica internazionale seria richiederebbe una mobilità internazionale della docenza, cioè un interscambio che faccia venire, dall’estero, docenti di qualità in Italia. Abbisogna cioè di investimenti non banali. Non a caso ciò che si approssima all’orizzonte su questa linea è l’inizio del percorso di architettura a Gorizia che, in chiave anche qui più sensibile alla formazione contaminata dall’estero, nasce per un investimento significativo prodotto dalle realtà locali goriziane. Non dobbiamo nascondere che sovrintendere offerte formative di questa portata – che per forza impegna a contratti onerosi e investimenti congruenti – non è facile nella situazione finanziaria deficitaria in cui, ahimé, siamo precipitati da tempo.

emm. Insomma, se Lei dovesse dire qual è il filone scientifico in cui l’Università di Trieste si contraddistingue nelle pubblicazioni internazionali? So, per averla frequentata, che Lettere e Filosofia non potrebbe esserlo, perché i diversi docenti che conosco pubblicano solitamente in italiano…

Lei intreccia due piani, eccellenza e internazionalità. Premettiamo che ci sono delle discipline che hanno più necessità, o se vogliamo, inderogabilità del dibattito internazionale. Tra queste le scienze dure. Le scienze umanistiche variano. Detto questo, da noi ambiti come nano-tecnologia, scienze pure come la fisica, la chimica, alcune aree di medicina ad esempio la genetica…ma farei ingiustizia omettendo taluni. Comunque anche nelle scienze umanistiche, specifiche discipline come nel caso di quelle comparatiste nelle scienze giuridiche hanno, per natura loro, una vocazione internazionale; oppure e a ancora alcune discipline pubblicistiche di ambito sistemico come il diritto costituzionale, in cui abbiamo Sergio Bartole che è uno dei padri delle costituzioni dell’Est.

emm: Sa quanti professori hanno meno di 40 anni all’Università di Trieste?

So la media di età che è di circa 55 anni. Credo pochissimi sotto i 40 anni.

emm. A noi, da un dato di tre anni fa, risultano zero…

Non mi meraviglierei se fossi così.

emm: Come pensa di cambiare le dinamiche interne all’Università per quanto concerne il reclutamento della giovane docenza? Non può toccare i vari Consigli di Facoltà e quindi la discrezionalità dei professori che costituiscono delle vere e proprie lobby interne detentrici del monopolio nella decisione.

La smentirò con i fatti. Come Rettore ho reclutato solo ricercatori – mi pare 15, anche se è un dato da controllare – e 2 professori di ruolo, poi non ho più reclutato nessuno visto che dal 1 gennaio di quest’anno mi è vietato farlo. Sarò soggetto a questo divieto imposto dalla “legge” Gelmini, fino a che non scenderò sotto il famoso 90% del fondo di finanziamento ordinario. Cosa che non prevedo nei prossimi 20 mesi. Quindi sarò un Rettore che avrà reclutato solo ricercatori, fatta eccezione per 2 professori di ruolo. Finché ho potuto mi sono impegnato a svecchiare il corpo docente. Ovviamente con un’incidenza marginale, 15 su 180 sono impercettibili. Nell’unica volta che li ho reclutati…
Questi 15 ricercatori di cui parlo, erano tra i candidati a borse di ricerca provenienti in lotto da Roma come stanziamento della legge Prodi 2007. Per Trieste, abbiamo bandito un concorso che non è stato sindacato solo dal Consiglio di Facoltà, ma anche, e soprattutto, dalle “aree scientifiche”. Queste aree, raccogliendo i tratti di tutta la comunità corrispondente si sono espresse proponendo al Senato di affidare il posto della materia x al candidato y. Le Facoltà hanno sancito, di fatto, la scelta dell’area. Le Facoltà sono 12, le aree più o meno lo stesso numero, ma non vi è una corrispondenza nella mappatura. In quanto le aree sono trasversali e capaci di interpretare al meglio la politica della ricerca scientifica. Procedendo così, abbiamo voluto fare in modo che l’individuazione delle materie cui attribuire il posto di ricercatore rispondesse a politiche di sviluppo della ricerca scientifica dove questa è forte e, quindi, merita investimento.

dl: Lei, nelle vesti di Rettore più giovane d’Italia, da che parte si schiera nel conflitto interno alle Università, tra giovani ricercatori e ‘baroni’?

Se nello specifico stiamo parlando di avvicendamento generazionale sono stato tra i più convinti alfieri di questa politica di interscambio. Ricordo che in questo Ateneo abbiamo applicato una politica poco cara ai “baroni”: abbiamo pestato tanti calli autorevoli nella speranza di accelerare al massimo quella discesa sotto il 90% che nella mia ottica dovrebbe poter, riaprendo i concorsi, favorire uno svecchiamento.

dl: Ma il pre-pensionamento è avvenuto con delle misure contrattuali particolari. Mi corregga se sbaglio: i professori, qualora decidessero di andare in pensione, hanno la possibilità di insegnare a 100 euro lordi per ora. Mi risulta che un ricercatore che fa didattica, pur non essendo preposto a farla, prende circa 40 euro lordi che tirate le somme fanno 12 euro effettivi per ora.

Sì. Il riferimento che lei fa sul trattamento a 100 euro riguarda tutta la docenza di ruolo – compresi i ricercatori – che scelga di prepensionarsi. Quell’importo così elevato risponde ad una logica incentivante che è sempre iscritta nelle diverse azioni che noi abbiamo posto in essere per accelerare la fuoruscita. Diciamo ai colleghi: tutti voi che siete nelle condizioni di andare in pensione da vecchiaia – il che può corrispondere anche a prima del limite di 70 anni, e questo è un caso discrezionale che non può essere obbligato – sappiate che avete l’opportunità di avere o un contratto di didattica (per i professori) o un contratto di ricerca, quotato in chiave incentivante per stimolare il vostro esodo. Questo riguarda tanto i professori di ruolo (associati e ordinari) quanto i ricercatori, anche quest’ultimi possono prepensionarsi a certe condizioni e avranno lo stesso identico trattamento.
Diverso è il caso del contratto di docenza per ricercatori in ambito del quale noi retribuiamo didattica ulteriore rispetto a quella tabellare obbligatoria. Quindi se noi confrontiamo le due modalità di trattamento appare una forbice scandalosa (da 100 a 10 euro per un’ora di lezione, ndr). Ma considerando la diversa filosofia che sottende questi due trattamenti si capisce questa distonia. In un caso è un incentivo a prepensionarsi, nell’altro una retribuzione, che non c’era fino ad un anno fa, e che viene accordato a partire di quest’anno. Purtroppo ci spiace che sia così bassa e poco dignitosa, ma copre qualcosa che prima era 0.

dl: Nella mia esperienza universitaria ho incontrato dei ricercatori che mi facevano lezione, dicendomi che non era loro compito farla. A detta loro, ci stavano facendo un favore…

Esatto, era così.

dl.: Secondo lei è una cosa ammissibile?

Secondo me, è dovuta. Perché la legge dello stato mi obbliga a non far insegnare il ricercatore che non ha obblighi di didattica frontale. Il Parlamento della Repubblica nel 1980 ha stabilito che nessuna amministrazione universitaria può obbligare il ricercatore di ruolo a tenere lezioni. Queste possono essere offerte dietro preciso pagamento o dietro caritativo apporto. Con quest’ultima manovra abbiamo bonificato una situazione insostenibile: non è giusto che un’amministrazione conti sulla carità.

dl: La cosìddetta riforma Gelmini ha portato una politica di finanziamento che non va più su base storica – per cui si dava agli Atenei a seconda di quanto prendevano negli anni precedenti – ma su base meritocratica. Questo ha fatto insorgere parecchi Rettori, soprattutto nel Centro-Sud d’Italia. Lei come guarda a questa politica del governo?

Io ho sempre condiviso il principio di valutazione e sempre lo farò: non è possibile amministrare un’istituzione che eroga conoscenza senza dei criteri per valutarla, diversamente ciascuno vivrebbe di luce propria.

dl: Pensa il 10% sia abbastanza?

Viene annunciato come primo passo ma è auspicabile che cresca il finanziamento sulla logica dei risultati conseguiti…

dl: Non la vedremo più alla guida della mobilitazione studentesca? Durante le proteste dell’anno scorso, quelle dell’Onda, Lei è stato il protagonista convocando a fine ottobre l’assemblea degli studenti affinché si mobilitassero contro il decreto governativo. La mia impressione fu quella di un capo-azienda che aveva portato la sua forza lavoro, gli studenti, in piazzale a scioperare. Senza nulla togliere ai motivi della protesta, come spiega questa anomalia di un Rettore che coinvolge gli studenti nella mobilitazione? E’ stato un caso o aveva degli interessi nel farlo?

Darei una ricostruzione diversa. Il ruolo che mi sono dato come istituzione ispirata ai principi costituzionali è stato quello di tentare, in tutti i modi, che il dibattito sulle riforme e sui tagli all’università – reclamato da più parti e prescindeva dalla sola dimensione studentesca – fosse ospitato con i dovuti canoni democratici. L’Università ospita la critica per sua natura e sua missione. L’assemblea che ricordava fu ispirata da questa logica: essere un contenitore che includesse democraticamente tutte le voci, compresi gli studenti in minoranza che si erano schierati a favore delle riforme.
Non crederei in un conflitto d’interessi: chi regge un’istituzione di questo tipo regge una struttura di tipo critico; non fabbrico diplomi ma amministro un’attività libera che si esplica in diverse forme, delle volte impercettibili. Quella volta per la pressione sociale che si era creata ha avuto questo contenitore visibile nel piazzale qui sottostante.

dl: Mi pare che l’impeto dell’onda si sia spento. Valuta quei momenti come un insuccesso?

Gli esiti di un dibattito di questo genere sono affidati a piani troppo alti. Se si pensa che Piazzale Europa possa far cambiare una legge dello Stato lo ritengo improbabile. Non mi reputo un deluso di quell’esperienza, del dibattito fatto a Trieste in particolare. Ritengo che ci siano semi che germinano anche in tempi più lunghi, e che le coscienze hanno anch’esse un tempo lungo. E’ presto per dire che è stato sterile…

Per chi fosse interessato, è possibile scaricare l’intervista completa al seguente link.

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57 commenti a L’intervista al Rettore Francesco Peroni

  1. effebi ha detto:

    “Una volta che il professore che non produce è di ruolo diventa intangibile. E analogo si potrebbe dire per il personale tecnico amministrativo”

    capimo ben che o arriva un Capo del Governo “rivoluzionario” o no xe destra o sinistra che sarà mai capace de indrizar sta baraca….

    e quela xe gente che dopo va in piaza a girotondare per protestar contro questa o quella riforma…. (col cul parado a vita)

  2. Marco Barelli ha detto:

    Senza voler entrare troppo nello specifico del dibattito sui cognomi, osservo due cose.

    1) Il fatto che taluni docenti del medesimo settore nella medesima università siano imparentati non implica che uno di questi sia indegno di insegnare.
    Non c’è mai stata alcun lamentela su docenti citati, tutt’altro!
    Possiamo pure sottolineare come vi possa esser stato un apprendimento ulteriore nella materia, maturato in famiglia e con studio personale di passione.

    Tuttavia dire “Non posso stabilire solo in base alla parentela se queste persone sono indegne all’insegnamento” è una cortina di fumo.

    Qui non parliamo delle persone, ma del sistema.
    Ci saranno state molte altre persone degnissime dell’incarico.
    Su così pochi posti disponibili, beh, le leggi di probabilità non testimoniano a favore della casualità.

    Ha invece assolutamente ragione il Rettore nel suo affermare che lui ha le mani legate sui concorsi per docenti di ruolo.
    Il Rettore è un prezioso supervisore di vertice, ma in questi ambiti può poco.

    Sta al legislatore provvedere.

    C’è un progetto di legge assai bellino che giace in Senato( http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/33270.htm ), e in cui sono previste incompatibilità ragionevoli.
    Per ora, però, nulla.

    2) Uno dei docenti consanguinei citati non è affatto un docente “di ruolo”.
    E’ o era a contratto.
    …e i contratti sono firmati dal Rettore o da un suo delegato( vedasi normativa d’Ateneo, http://www-amm.univ.trieste.it/Reguni.nsf/vAll/3BF889E311B63773C12575B000277E4F?OpenDocument ).
    La normativa d’Ateneo, riformata di recente, prevedeva una serie di incompatibilità per i candidati all’insegnamento a contratto.
    In tema di consanguineità o matrimonio, tuttavia, nulla è detto.

  3. enrico maria milic ha detto:

    1)
    non metto in dubbio che i prenz siano bravi.
    metto fortemente in dubbio che sia giusto che insegnino nella stessa università. mi pare che su questo siamo d’accordo.

    2)
    che sia a contratto o che altro, o chi firma il contratto, non cambia il merito.
    resta la responsabilità morale e politica del rettore e di tutti quelli che avvallano nel silenzio reclutamenti di questo tipo.

  4. Marco Barelli ha detto:

    Chiarisco meglio: il Rettore firma il contratto in quanto rappresentante legale dell’Ateneo, ma non opera lui o il Senato Accademico la scelta comparativa tra i candidati contrattisti.

    Questo spetta integralmente ad una commissione della Facoltà interessata.

    Non diamo, però, ogni responsabilità al ministero e alla legge se qualcosa si può già fare per migliorare la selezione: modificare il regolamento d’Ateneo, che non comporta certo eccedere in retoriche cavalcate contro presunti “baroni”.

    Una miglioria andrebbe a tutto vantaggio anche dei docenti che potrebbero dimostrare meglio i propri meriti, su cui nessuno dubita.

  5. enrico maria milic ha detto:

    ehy, fermo.
    1)
    l’aspetto tecnico non sono certo che sia così ‘neutrale’ come lo descrivi. formalmente hai ragione ma chi firma mette comunque in campo la sua autorevolezza.
    2)
    io dubito sui meriti di un sacco di prof. che non esito, in alcuni casi, a chiamare baroni.

  6. enrico maria milic ha detto:

    dal sito di news affari italiani:

    Una vera e propria debacle per l’università italiana, superata anche da Corea e Taiwan. E’ quello che emerge dalla classifica internazionale annuale sui migliori 200 atenei al mondo, messa a punto da QS Intelligence Unit e pubblicata dal Times Higher Education. Nella lista la prima università del Belpaese si trova infatti al 174mo: si tratta dell’Alma Mater di Bologna che, rispetto allo scorso anno è salita in graduatoria guadagnando otto posizioni e si piazza prima della Sapienza, la più grande università italiana ferma al 205° gradino, come nel 2008.

    per chi volesse approfondire:
    http://www.affaritaliani.it/cronache/universita_ricerca_internazionale_gelmini_serve_riforma081009.html

  7. bulow ha detto:

    dubito che la gelmini possa portare la meritocrazia da qualche parte. per farlo, bisogna essere credibili, e lei non lo e’. quali sono i suoi meriti?

  8. bulow ha detto:

    tra le questioni emerse nell’ intervista ce n’e’ una che forse non dice molto ai non addetti, ma che in realta’ e’ piuttosto importante: la questione del pagamento dei corsi tenuti dai ricercatori.

    molti ricercatori la ritengono una conquista: per il momento si parte a dieci euro all’ ora, poi si vedra’.

    io invece penso che si tratti di una inculata colossale. la vera posta in gioco e’ il riconoscimento dei ricercatori come terza fascia della docenza. i ricercatori hanno uno status ambiguo, perche’ la legge che ha istituito il ruolo di ricercatore nei primi anni ottanta rimandava la definizione dello status a una legge successiva che non e’ mai arrivata. nel mondo reale, i ricercatori sono docenti a tutti gli effetti. tengono corsi, sono relatori di tesi, fanno parte delle commissioni di laurea, etc. etc.. da molti anni i ricercatori chiedono che questa situazione di fatto venga inquadrata in uno status giuridico ben definito. ora salta fuori questa storia che i corsi tenuti dai ricercatori verranno pagati 10 euro all’ ora. per quanto mi riguarda, potevano essere anche 100, e la sostanza sarebbe la stessa. con questo provvedimento, si stabilisce che l’ attivita’ didattica dei ricercatori e’ qualcosa di estemporaneo, e si chiude definivamente la porta alla possibilita’ di istituire la terza fascia. in prospettiva questo significa anche che la figura del ricercatore sparira’ gradualmente, sostituita da figure piu’ “flessibili” (leggi: precarie), prive di qualsiasi autonomia e liberta’ scientifica.

  9. enrico maria milic ha detto:

    non so se la gelmini abbia qualche merito ma io segnalavo la graduatoria pubblicata dal Times Higher Education. che qualche autorevolezza ce l’ha, mi pare.

  10. bulow ha detto:

    enrico

    appunto. dubito fortemente che la gelmini sia la persona adatta e fronteggiare la situazione.

  11. Duccio Galimberti ha detto:

    Bisognerebbe magari ascoltare non solo la voce del rettore dell’università di Trieste, ma anche quella dei tanti docenti che fanno il lavoro vero di ricerca, didattica, progettazione, programmazione, organizzazione e gestione. Come vedono loro la situazione dell’unversità sia triestina sia nazionale? Possibile che a leggere i giornali locali da anni si senta parlare sempre e solo il rettore ? E’ come se il resto della comunità universitaria non ci fosse, non contasse niente, non avesse idee e si identificasse completamente con il rettore, il che non è affatto vero (i numeri della rielezione sono imponenti, ma non equivalgono a una cambiale in bianco)

  12. Marisa ha detto:

    Una domanda. Se l’università italiana è così mal messa, com’è che le università statunitensi si contendono i laureati italiani? Per quanto ne so io le università anglosassoni (nord-americane, inglesi, australiane ecc.) hanno una impostazione molto diversa dalla nostra. Gli studenti sono super-preparatissimi in un campo specifico e ignoranti in tutto il resto. Da noi non c’è questa fortissima specializzazione in un singolo o parte di un singolo settore, ma lo studente ha un “sapere” molto ampio e diffuso.

    Personalmente preferisco il metodo italiano.

    Non è che questo penalizza le università italiane sul piano dei criteri in base ai quali si fanno queste classifiche?

  13. arlon ha detto:

    E’ probabile, e anch’io preferisco – per la maggior parte dei corsi di studio, ma assolutamente non per tutti – l’approccio “vecchio stile” all’università.

    Il problema delle nostre università è, oltre al baronato, che sono fatiscenti, senza servizi, stanze, facilitazioni per lo studente medio.
    E questo per la mia esperienza conta un’enormità!

  14. arlon ha detto:

    Di conseguenza, triplicare i fondi a università e ricerca è l’unica soluzione reale. Il resto sono dettagli 🙂

  15. enrico maria milic ha detto:

    per esperienza, a me pare che gli studenti che riescono a laurearsi in italia siano molto preparati sulla teoria, per niente sulla pratica. in questo senso sono ottimi per la ricerca universitaria. in questo senso quando arrivi in gran bretagna, in qualità di laureato in italia, vieni considerato ‘un drago’ per la tua preparazione.

    accade invece che i laureati britannici che ho conosciuto, durante il corso di laurea, siano formati per farne qualcosa di pratico di quei 3 anni spesi nell’ateneo.

    personalmente preferisco un’università che ha ANCHE dei risvolti pratici: laureati che hanno imparato qualcosa di utile e ricercatori che fanno ANCHE ricerca applicata. quindi meglio la gran bretagna, di gran lunga, per me.

    si noti un altro particolaruccio: meno della metà delle matricole delle università in italia riesce ad arrivare alla laurea (cito a memoria il dato di anni fa, ma non penso sia variato molto). molto male, direi.

  16. Attilio Di Battista ha detto:

    Ciao a tutti,
    premettendo la mia stima nei confronti del Rettore Peroni, che credo stia facendo un ottimo lavoro prendendo delle decisioni spesso coraggiose ma indispensabili (vedi il prepensionamento), vorrei comunque fare qualche osservazione.

    Tralascio il discorso sui baroni nell’università (che probabilmente ci porterebbe molto, troppo lontano), ma spendo due parole sulla famiglia Prenz. Non conosco tutti i componenti della famiglia nè so quali e quanti siano contrattisti, so però che un contrattista prende circa 3000 euro lordi per un corso annuo di 60 ore inclusi anche tutti gli appelli d’esame…e che spesso quindi trovare un contrattista diventa più una difficoltà che non un modo per spartire poltrone…

    Darei un focus maggiore alla questione architettura! Innanzitutto la cosa che spesso non si ricorda e che molti a Gorizia non sanno, è che gli enti locali goriziani verseranno 900,000 euro in 3 anni alla Facoltà di Architettura per trasferirsi a Gorizia. E’ indubbiamente vero poi che lo spostamento di architettura andrà a riempire spazi vuoti a Gorizia (vuoti per ora quanto meno…) che sono di proprietà dell’università, causando un risparmio all’ateneo; ma non si poteva fare una scelta migliore? Si è fatto bene a spostare Architettura, ma non sarebbe stato meglio spostare altro? Ad esempio Scienze Politiche? o Interpreti e Traduttori (visto che se non sbaglio a Gorizia c’è anche la sede udinese della stessa facoltà…a proposito di doppioni!) Insomma non si poteva spostare una facoltà con la quale si sarebbero potute fare maggiori sinergie? Economia, Giurisprudenza…o ancora meglio (cosa che noi proponiamo inascoltati da anni) creare altri corsi distaccati di economia e giurisprudenza da indirizzo internazionalistico e metterli a Gorizia insieme a Scienze Internazionali e Diplomatiche e poi creare una Scuola Superiore di Studi Internazionali? Del resto questa sarebbe stata anche la scelta migliore in vista dell’aperura del Conference Center da parecchi milioni di euro nella sede goriziana!
    Invece, grazie all’intraprendenza di Borruso, la scelta è caduta su architettura! E non c’è dubbio che Borruso abbia fatto una scelta ottima per la sua facoltà! Ed ora ha lanciato lui in pompa magna la Scuola Internazionale di Architettura di Gorizia (sigh!). Ma dubito che questa sia stata la scelta migliore per l’Ateneo…ma probabilmente la colpa non è solo del Rettore: conosco l’ostilità nutrita nella Facoltà di Scienze Politiche verso Gorizia, posso immaginare che la cosa non sia dissimile in altre Facoltà…Peccato che per la sede di via Alviano sia stata un’occasione mancata!

    un saluto a tutti!

  17. kit ha detto:

    magari riprendo quest’intervista tra un paio di giorni sul mio blog.
    Diciamo che quest’intervista mi ha lasciato con un gusto strano in bocca. Devo rifletterci.
    Da studente dell’università di Trieste posso dire che si sono dei meccanismi non troppo chiari, anzi per niente, già a livello di singole facoltà (e relativi CdF), non voglio immaginare a livelli più alti.

    Del sig. Peroni mi ricordo solo un’affermazione (nell’ambito delle manifestazioni contro la Gelmini) che ha infiammato gli animi, ma alla fine è rimasta solamente un’ affermazione. Si sarebbe dimesso se la legge Gelmnini/Tremonti sarebbe andata in porto… a voi le conclusioni

  18. Marisa ha detto:

    Caspita, a Gorizia avete pagato una fortuna il trasferimento della facoltà di Architettura!
    E pensare che avete fatto un grandissimo favore a questa facoltà triestina che, e non è un mistero, a Trieste era priva di spazi e mi risulta non abbia mai avuto una sede unica. Fate un grandissimo favore, mettete a disposizione spazi e anche pagate cosi tanto per tre anni? Complimenti!

  19. Andrea Luchetta ha detto:

    Da profano, devo dire che non mi dispiace come se l’è cavata Peroni. L’avevo intervistato tre anni fa per Sconfinare e anche allora mi aveva lasciato un’impressione nel complesso positiva.
    Poi, sottolineo, non ho assolutamente le competenze per giudicare fino in fondo.

  20. Attilio Di Battista ha detto:

    Riguardo le dimissioni di Peroni, egli aveva detto che si sarebbe dimesso qualora la legge non fosse stata cambiata, ma si riferiva evidentemente alla mole di tagli prevista all’autunno scorso (se non sbaglio 1,4 miliardi di euro in meno all’FFO in 2 anni). I tagli però se non sbaglio sono stati ridimensionati, tant’è vero che se fossero stati confermati l’ateneo di Trieste come tanti altri avrebbe già chiuso ed il Rettore avrebbe portato i registri in tribunale per il fallimento (proprio per evitare di fare questo si sarebbe dimesso prima per protesta). Insomma non è vero che non ha mantenuto fede alla parola, semplicemente il governo ha fatto un passo indietro…

  21. enrico maria milic ha detto:

    @kit, rispondo al tuo passaggio:

    Diciamo che quest’intervista mi ha lasciato con un gusto strano in bocca.

    ti racconto il gusto che ha lasciato in bocca a me questa intervista, invece, in breve e di fretta:

    diciamo che peroni si ritrova con due giovani o pseudogiovani (parlo per me che sono 32enne, non per davide) che gli chiedono conto di cosa fa nei confronti dei giovani e dei pseudogiovani, e nei confronti del “mondo là fuori” (usando un ‘espressione cara a bart simpson).

    «uff che noia», forse pensa peroni, «non posso star qua soletto e comodo in rettorato a gestire le mie solite beghe del mio mondo a sè. però l’intervista forse mi viene comoda: magari mi posso far bello con una manciata di gente del “mondo là fuori”».

    continua il mio peroni tra sè e sè: «potrei tentare di far vedere che io sto dalla loro parte, e che non sto dalla parte dei baroni».

    l’intervista va avanti e i più-o-meo-giovini chiedono a peroni di architettura a gorizia, di borruso, di prenz…

    pensa peroni, in questi attimi: «magari me la cavo con un diplomatico “io faccio quel che posso per i pseudogiovini, ma è colpa di roma, della legge, del sistema! sono tutti più forti di me!”».

    questo qua è il pensiero dello pseudo-peroni, immaginato da milic.

    il peroni-vero invece è stato l’unico candidato dell’ateneo di trieste: votato da tutti, evidentemente anche dalla parte ‘peggio’ dell’ateneo; rettore di un’università tristemente nota per non essere nota (fuori da trieste e dall’italia, obviously).

    sarebbe bello che il peroni-vero fosse solo un prigioniero di questo sistema. ma ne è la prima espressione. no?

  22. Marco Barelli ha detto:

    Anche io dubito sui meriti di più di qualche docente.

    Oltre a questi dubbi, sono anche grammaticalmente dubbioso per aver accavallato malamente l’ordine delle parole.

    CORREGGO: “Una miglioria, su cui nessuno dubita, andrebbe a tutto vantaggio anche dei docenti che potrebbero dimostrare meglio i propri meriti.
    …se questi meriti ci sono, chiaramente.

    Tuttavia i “baroni” sono categoria in sfaldamento ed estinzione per età anagrafica, totale trasformazione dell’università ed ingolfamento del sistema d’assunzioni.
    Niente nuove assunzioni, dunque difficilmente c’è una cerchia di associati e ricercatori a contornare il “barone” per far carriera.

    I pochi “baroni” rimasti hanno fatto metamorfosi per sopravvivere.

    Ho l’impressione che, approffitando di come i media semplificano, si scarichini i problemi di malfunzionamento e malcostume su presunti “baroni”, spesso onesti docenti a fine carriera, per sviare l’attenzione da altro.

    Intendo: sviare dai guai della docenza a contratto( anche se questa subirà un drastica diminuzione ), dai concorsi di dottorato e amministrativi dall’esito piuttosto prevedibile, dal funzionamento non sempre eccellente dell’amministrazione, dal trattamento quasi scandaloso riservato ai ricercatori, da una scarsa pianificazione didattica d’ateneo e da una prassi di democrazia interna molto discutibile.

    Quanto ai contratti dubbi, sono spesso difficili da individuare, perché i legami più torbidi non sono di sangue.
    L’identità del cognome balza all’occhio, ma magari fosse quello l’osso più duro da rosicare.

    In questi casi, la responsabilità è stemperata tra più soggetti.
    In ordine crescente di responsabilità: chi firma (rettore o più usualmente il preside), chi approva (il consiglio di facoltà), chi valuta(una commissioncina di 3-4 docenti).

    Fino a un anno fa le regole erano così allentate che se perveniva una sola domanda per un contratto di docenza, non era difficile che gli fosse assegnato de plano senza troppo indagare sui titoli.
    C’è stata da allora una stretta di vite, ma nella sua autonomia normativa l’Ateneo potrebbe fare di più.

  23. enrico maria milic ha detto:

    @ marco, quando scrivi:

    Ho l’impressione che, approffitando di come i media semplificano, si scarichini i problemi di malfunzionamento e malcostume su presunti “baroni”, spesso onesti docenti a fine carriera, per sviare l’attenzione da altro.

    Intendo: sviare dai guai della docenza a contratto( anche se questa subirà un drastica diminuzione ), dai concorsi di dottorato e amministrativi dall’esito piuttosto prevedibile, dal funzionamento non sempre eccellente dell’amministrazione, dal trattamento quasi scandaloso riservato ai ricercatori, da una scarsa pianificazione didattica d’ateneo e da una prassi di democrazia interna molto discutibile.

    qui tenti di sfondare una porta che è già aperta. Parliamone di questi problemi…

    Ma parliamone sul serio, perchè se c’è qualche speranza di rinnovamento degli atenei in Italia (ma si potrebbe dire anche di quello che sta fuori da questi atenei) risiede in organizzare un dibattito chiaro e franco, insomma nel fare breccia nella cortina dell’omertà.

    Tra l’altro, se c’è una cosa che Peroni ha sollecitato, è proprio quella di maggiore responsabilizzazione di ogni suo ‘lavoratore’ contro gli abusi interni.

  24. Marisa ha detto:

    Nell’intervista il rettore dichiara che è giusta e corretta la distribuzione dei fondi ordinari statali in base al merito (poteva dire il contrario? Ovviamente NO!). Ma nulla dice sul fatto che fino ad ora, e da anni, la sua università è stata molto favorita dal criterio distributivo “costo storico”. E nulla dice sul fatto che Trieste è oggi una delle poche università italiane che ha il blocco (da parte del Ministero) dell’assunzione di nuovi docenti per aver superato il “famoso” parametro del 90% (rapporto tra fondi ordinari statali ricevuti e spesa in conto stipendi)?

    Enrico Maria, perchè non gli hai chiesto chiarimenti anche su qusti due punti? Sono due punti molto importanti per il futuro dell’università di Trieste perchè toccano il tema “finanziamenti” e assunzioni docenti. E com’è che a Trieste hanno superato il parametro del 90%? E le altre università italiane come sono riuscite a non superarlo?

  25. Davide Lessi ha detto:

    @ Marisa:
    sul fondo storico in effetti il rettore non si è espresso, faccio il mea culpa per non averlo incalzato.
    quanto al blocco delle assunzioni per il superamento del parametro del 90%, in realtà ha ammesso almeno due volte di non poter procedere a nuovi reclutamenti. se non le trovi in questa intervista, ti consiglio di scaricarti la versione originale (link a fine articolo) che è divisa per temi. poi chiaramente non ha evidenziato che Trieste è “una delle poche” in questa situazione, e credo non stia a lui screditare l’istituzione che rappresenta.

    per fortuna o purtroppo, e qui arrivo all’idea che mi sono fatto nell’intervistarlo, Peroni sembra essere ben consapevole del marcio che c’è nell’università italiana e nel caso specifico di Trieste, ma allo stesso tempo è conscio del fatto che, se non arriveranno dei cambiamenti di direzione da Roma, lui potrà fare ben poco.
    è per questo che abbiamo scelto questo titolo. credo, personalmente, che sia un buon amministratore con le mani legate.

  26. Marisa ha detto:

    @Davide Lessi

    Grazie tante della tua spiegazione.

  27. Duccio Galimberti ha detto:

    Dell’intervista a Peroni devo dire che ho apprezzato la volontà di affrontare temi scomodi, un sincero interesse a capire come funzionano le cose, l’atteggiamento complessivamente non subordinato e non compiacente verso l’intervistato. E la discussione successiva ha aggiunto ulteriori voci che dimostrano preoccupazione, attenzione, sensibilità per le sorti dell’università di Trieste. Tuttavia vorrei anche dire che sia l’intervista sia i successivi interventi lasciano trapelare una conoscenza piuttosto approssimativa di come funziona (o non funziona) una università. Forse questo è inevitabile se la propria esperienza è solo quella di essere stati studenti; ma se si intervista un rettore sarebbe meglio essere più attrezzati, per non dare modo alla retorica e ai giri di parole di presentare la realtà in modi addomesticati. Ciò detto, ribadisco che l’intervista è stata molto meno compiacente e più informata di molte che si possono leggere su giornali più importanti. E il problema che ho appena richiamato (una conoscenza approssimativa di come funziona una università) non intende sminuire il valore del’intervista, ma solo evidenziare come essa si sia concentrata su alcuni argomenti importanti (Architettura, le difficoltà di svecchiamento dell’unversità di Trieste, la sua scarsa internazionalizzazione), ma anche su alcune questioni che sono secondarie e sulle quali poco importa soffermarsi (casi di presunto nepotismo, forme di cosiddetto baronaggio, contratti di docenza ai prepensionati, pagamento della docenza dei ricercatori). Inoltre c’è una cosa sulla quale val la pena di insistere. Avete ascoltato il rettore parlare come se lui “fosse” l’università di Trieste. Be’, come ho già detto in un precedente intervento, il rettore, soprattutto un rettore come Peroni, non è affatto l’università di Trieste. Lui ne è temporaneamente alla guida. Ma chi fa funzionare l’università di Trieste sono in realtà le decine di docenti e ricercatori attivi, impegnati,che quotidiniamente svolgono il lavoro di insegnamento e – non dimentichiamolo – quel difficilissimo e sempre più difficile lavoro di organizzazione della didattica e della ricerca che conferisce a ogni ateneo il suo profilo complessivo. Perché un rettore fosse in grado di influire sul profilo complessivo di un ateneo bisognerebbe che avesse capacità di guida, visioni politico-strategiche, conoscenza delle problematiche della ricerca a livello internazionale, anni di esperienza organizzativa e scientifica, volontà di intraprendere azioni di lungo periodo: tutte cose che sicuramente Peroni non ha. Non le ha avute assolutamente nei suoi primi tre anni e non le ha ora. Certamente da questo punto di vista la sua rielezione è stato un autogol, questo sì, per l’ateneo: una dimostrazione della incapacità di quest’ultimo di innovare, di svoltare pagina, di cambiare strada: come invece avrebbe maledettamente bisogno di fare. Voltarev pagina in modo chiaro e deciso. Nell’operato di questo rettore, anche a causa del basso profilo delle persone di cui si è circondato nel primo triennio (alcune purtroppo confermate dopo la rielezione) – reclutate per convenienze “politiche” interne e non certo per competenze – non c’è stato assolutamente niente che si possa definire una azione di qualche lungimiranza per il rilancio dell’ateneo triestino. E l’ateneo triestino avrebbe sicuramente bisogno di un rilancio, come voi giustamente intuite. Ma per questo deve fare affidamento sulla sua parte più sveglia e intraprendente, non sulle sue componenti più legate a vecchie logiche di potere, a cui in fondo anche Peroni è legato a doppio filo, nonostante lo sforzo veramente di corto respiro di presentarsi “dalla parte degli studenti”.

  28. enrico maria milic ha detto:

    ciao ‘duccio’
    (ma firmarsi col proprio nome, no eh?)

    vero che non siamo esperti di università, ma qualcosa ne mastichiamo: proprio perchè siamo o siamo stati studenti.

    in questo senso, non sottovaluterei il punto di vista degli studenti o, semplicemente, dei cittadini sull’ateneo: perchè il trasferimento di conoscenze dall’università alla comunità dovrebbe essere uno dei due pezzi fondamentali del dibattito politico sul ruolo dell’università. e mi pare che dentro gli atenei le questioni che solleviamo siano spesso sottovalutate.

    per quanto riguarda tutto il resto, anche qua, duccio, sfondi porte aperte.
    benvenga il dibattito.
    ma se il dibattito resta fatto di ammiccamenti e richiami impliciti, come in parte nel tuo commento e in grande parte altrove, non credo faremo molta strada. credo sarebbe utile parlare di problemi concreti, parlando di persone, strutture didattiche e di ricerca: che funzionano o meno, quali sono i loro problemi, e così via.

    siamo a disposizione:
    milic@bora.la

    ciao,
    enrico

  29. bulow ha detto:

    @ enrico

    visto che e’ circa un anno che intervengo su questo blog e visto che ci conosciamo da lungo tempo, spendo due parole per spiegare il perche’ del nick “bulow”. come sai, “bulow” era il nome di battaglia di arrigo boldrini. boldrini aveva praticato la “pianurizzazione” della guerriglia, sfidando i tedeschi in campo aperto. per questo i suoi compagni lo avevano soprannominato scherzosamente “bulow”, in ricordo del generale von bülow, stratega della guerra di liberazione tedesca contro l’ occupazione napoleonica. ho scelto il nick “bulow” perche’ quando ho cominciato a intervenire su questo blog, dopo molti anni passati “in montagna”, per la prima volta ho praticato di nuovo lo “scontro aperto in pianura”. visto che non mi permetterei mai di paragonarmi a una medaglia d’ oro al valor militare, considera anche che nella scelta del nick c’e’ stata una certa dose di autoironia.

    martino “bulow” prizzi

  30. Luigi (veneziano) ha detto:

    Cascano a fagiolo le recentissime classifiche delle università mondiali del Times Higher Education, che piazzano solo due istituti italiani nelle prime 200 (Bologna e Roma), e – come parzialissima consolazione – Roma al 25° posto come università per lo studio delle scienze naturali.

    In pratica le università italiane non producono sapere.

    La mia impressione è che se ne freghino altamente della meritocrazia.

    Nello specifico, io non conosco la situazione di Trieste, ma qui – e faccio solo un esempio – non è in discussione se i signori Prenz sono o non sono delle brave persone, preparate nel loro campo, ma se siano state *le più brave* nel loro specifico processo di selezione. Io mi rifiuto di pensare che si ritrovano riuniti tutti qua in modo completamente casuale.

    E’ assolutamente impensabile, per i canoni nostrani, che uno “sbarbato” trentenne sorpassi in un concorso il parente del barone o più semplicemente faccia fuori il tirapiedi che per decenni ha portato l’acqua con le orecchie al suo professore di riferimento.

    Tutti quelli che per esperienza diretta o indiretta l’hanno visto se ne sono resi conto: io faccio un favore a te, tu farai un favore a me: dimmi chi devo far passare avanti oggi e tu domani farai passare quello che ti dirò io.

    Quindi che cosa dovrebbe dire un rettore di una qualsiasi università italiana, che già per il fatto d’esser lì al suo posto è passato nella grande maggioranza dei casi (salvo eccezioni…) per mille volte attraverso le tipiche selezioni della antimeritocrazia nostrana, e quindi in qualche modo ne rappresenta la quintessenza?

    Il giorno che vedrò fatto fuori a calci nel sedere un ordinario che alla lezione frontale manda sempre il suo tirapiedi, che piazza per la quarantesima volta consecutiva il suo corso di lezioni basato sul suo “immortale studio” pubblicato quarant’anni fa, che agli appelli d’esame si presenta regolarmente in ritardo ma va via regolarmente in anticipo, che il giorno che vai a chiedergli la tesi ti rimanda al sottopancia del sottopancia, che il giorno della discussione della tesi ti chiede di ricordargli come ti chiami e poi sbaglia il nome davanti alla commissione (tutte cose viste con i miei occhi)… dicevo: il giorno in cui uno così sarà cacciato a calci dall’università, allora forse mi ricrederò.

    Luigi (veneziano)

  31. bulow ha detto:

    @ enrico

    voglio dire che non ho mai capito un cazzo di strategia, e tu sai a cosa mi riferisco 😉

  32. enrico maria milic ha detto:

    @luigi

    sottoscrivo totalmente

    @bulow

    dei, adesso dico solo che bisogna iniziare a parlarne dei problemi. ammetterai che c’è una certa dose di omertà su questi temi…

  33. Duccio Galimberti ha detto:

    Inviterei il commentatore a leggere attentamente quello che ho scritto. Ho espresso apprezzamento per l’intervista. E ho detto che ha mostrato buona capacità di non cedere alla compiacenza e di porre temi scomodi, reali e imbarazzanti. Ho anche osservato però che, accanto a questi temi, se ne sono insinuati altri che sono irrilevanti o mal posti, come quelli dei presunti casi di nepotismo (sui quali il Peroni ha avuto buon gioco a rispondere e lo ha fatto in modo ineccepibile) o delle cosiddette baronie o dei favoritismi concorsuali. Qui il discorso sarebbe molto lungo: ma, certo, far passare tutto per favoritismo, corruzione, assenza di meritocrazia è facile, ma purtroppo è una sciocchezza. In ogni caso, niente è stato detto che potesse far pensare alla sottovalutazione del parere di studenti o cittadini: si potrà però rilevare che gli studenti hanno spesso opinioni molto approssimative su come funziona l’università ? Lo ha dimostrato perfettamente, tra l’altro, l’esperienza dell’Onda triestina, quando furono aperti tavoli di lavoro di studenti con la partecipazione anche di docenti. Allora fu chiarissimo che c’erano enormi lacune di informazione e di dati da parte degli studenti e che le loro posizioni spesso poggiavano sul nulla. Un’ultima osservazione: benissimo e salutare che un dibattito sull’università di Trieste si svolga in questo blog e si svolga in toni privi di compiacenza. Il problema è che è dentro l’università che il dibattito manca ed è stato anestetizzato dallo stesso che un giorno sì e l’altro pure si appella e si attribuisce titoli di democrazia. E manca, tra l’altro, anche grazie al fatto che un organo di stampa cittadina per anni non ha fatto niente per accendere le luci sui problemi, per fare inchieste, per ascoltare opinioni, ma si è dimostrato completamente subordinato, quasi fosse un portavoce ufficioso. Sugli ammiccamenti non commento: basta rileggere il messaggio per trovarvi parecchie opinioni piuttosto nette. Altro che ammiccamenti.

  34. bulow ha detto:

    enrico

    era solo per dire che non ho problemi a metterci il nome e la faccia, sulle cose che dico.

    per il resto, ha ragione duccio quando dice che in generale i giornalisti sono piuttosto approssimativi quando parlano di universita’. ma anche i politici, aggiungo io. ricordo un’ intervento della melandri qualche anno fa: mi sentivo in imbarazzo per lei. non sapeva nemmeno che differenza c’e’ tra un ricercatore e un dottorando.

    invece mi stupisce che duccio consideri secondaria la questione dei ricercatori. tutto sommato, i ricercatori sono un terzo del corpo docente. interi corsi di laurea stanno in piedi solo grazie alla didattica svolta dai ricercatori. come ho gia’ detto, io sono contrario alla retribuzione della didattica svolta dai ricercatori. sono invece favorevole alla creazione della terza fascia della docenza.

  35. bulow ha detto:

    poi c’e’ la questione reclutamento. secondo me sarebbe un grande passo avanti, se il reclutamento passasse dalle facolta’ ai dipartimenti. infatti i dipartimenti sono strutture scientifiche omogenee che possono essere valutate, almeno in linea di massima. invece le facolta’ sono strutture piuttosto eterogenee, e spesso funzionano come camere di compensazione tra gruppi in lotta fra di loro.

  36. Duccio Galimberti ha detto:

    Bravo Bulow, hai detto bene su varie cose. Ma lasciami precisare. Non ho sostenuto che considero secondaria la questione dei ricercatori. Niente affatto. La considero molto importante, per il semplice motivo che come è noto (lo ha detto anche Peroni) dal 1980 i ricercatori hanno una definizione di compiti che NON li obbliga alla didattica. Se fanno didattica la fanno solo volontariamente (per mezzo un tempo di supplenze, poi di affidamenti diretti oggi di compensi) e possono “ricattare” l’istituzione da un giorno all’altro dicendo: “da oggi basta”. Questo non va bene. Primo, perché quando faceva loro comodo (1980-1995 circa) e quando la didattica accessoria (ossia le supplenze) era pagata (e anche discretamente: per dire, gli anni dello scialo !) tutti i ricercatori correvano a fare didattica perché volevano avere la titolarità dei corsi (che ottennero) e prché speravano alla fine di ottenere un bell’ope legis e alè, todos caballeros. Questo non è avvenuto (fortunatamente) e siamo tornati alle origini: i ricercatori non hanno obblighi didattici e sono in una posizione francamente insostenibile. Bene sarebbe la terza fascia docente. Concordo. Tanto più che l’assurdo è che oggi come oggi,il soddisfacimento dei requisiti minimi di docenza imposti dalla legislazione recente in modo assolutamente stringente richiede che nei conteggi siano inclusi anche iricercatori (benché non abbiano obblighi). Si capisce bene cosa questo vuol dire: vuol dire che i ricercatori possono teoricamente far venire meno i requisiti minimi da un giorno all’altro e far crollare il castello messo in piedi con mille difficoltà. In queste condizioni, pagare (con somme ridicole) la didattica dei ricercatori è una misura che serve solo a mantenere sotto sicura una potenziale bomba a mano. Che i ricercatori si prestino (e che assumano comportamenti ricattatori) è una cosa irresponsabile, non degna di persone di scienza (ma molti hanno vocazioni ben diverse dalla scienza).
    Che giornalisti e politici e addirittura ministri siano incompetenti in fatto di università è verissimo ed è semplicemente inaccettabile. Basta pensare ai ministri dell’università succedutisi dopo l’ultimo che avesse cognizione dei problemi, ossia Antonio Ruberti (fine anni ’70-primi anni ’80). Possibile che la classe politica non sappia esprimere figure di prestigio e con solida peparazione a cui affidare l’università ? E’ proprio il segno che alla politica italiana dell’università non potrebbe interessare di meno.
    Ultima cosa: il reclutamento. Qui bisogna fare attenzione e precisare alcuni punti. 1) il reclutamento, anche con le recentissime riforme dei concorsi, avviene (è sempre avvenuto) con un misto di selezione nazionale (teoricamente una tutela scientifica) e di scelta locale della singola facoltà (ora semmai di ateneo: e qui il rischio dei favoritismi è altissimo, in mancanza di responsabilizzazioni precise). In passato predominava la selezione nazionale. Poi si è passati a una selezione che dava molta libertà alle scelte locali. Ora si è passati a un meccanismo complicatissimo, metà nazionale (commissioni tutte a sorteggio) e metà locale, ma sempre senza meccanismi responsabilizzanti (ossia. l’università paga se fa scelte sbagliate). I risultati si vedranno, ma il meccanismo è sconcertante e probabilmente paralizzante, nel senso che forse non sarà nemmeno possibile portare a termine questi concorsi nuovi.
    Ciò detto, sarebbe certamente bene che il reclutamento lo facessero i dipartimenti, specie nel nuovo ruolo che verranno ad avere se si relaizzeranno le linee guida del governo in materia di riforma dell’università. Il punto sono le risorse finanziarie. Moltissime università, anche le più prestigiose, sono in crisi finanziaria nera: per scelte avventurose in materia edilizia, oppure per eccesso di reclutamento in passato, oppure perché si sono indebitate sprando in ripianamenti pubblici. Le università che spendono troppo in personale (e si badi: personale docente e anche personale non docente) non possono reclutare. Trieste è fra queste. E’ sicuramente un problema, perché il corpo docente invecchia (il che non è necessariamente male: gli anni portano esperienza, capacità, prestigio, non è vero che un docente in là con gli anni diventa inerte o improduttivo, benché in certe discipline questo avvenga più che in altre e benché ci siano certamente casi, anche molti casi, di anziani docenti che non producono più cose significative). Il corpo docente invecchia e va in pensione e i posti che restano liberi non si possono rimpiazzare che in piccola misuira (e comunque Trieste non può fare nemmeno questo perché non è a posto coi conti).
    Chiudo scusandomi per la lunghezza: l’argomento è appassionante, ho ascoltato opinioni anche giuste, che mi è sembrato importante commentare e (forse) precisare. Saluti

  37. Duccio Galimberti ha detto:

    Bravo Bulow, hai detto bene su varie cose. Ma lasciami precisare. Non ho sostenuto che considero secondaria la questione dei ricercatori. Niente affatto. La considero molto importante, per il semplice motivo che come è noto (lo ha detto anche Peroni) dal 1980 i ricercatori hanno una definizione di compiti che NON li obbliga alla didattica. Se fanno didattica la fanno solo volontariamente (per mezzo un tempo di supplenze, poi di affidamenti diretti oggi di compensi) e possono “ricattare” l’istituzione da un giorno all’altro dicendo: “da oggi basta”. Questo non va bene. Primo, perché quando faceva loro comodo (1980-1995 circa) e quando la didattica accessoria (ossia le supplenze) era pagata (e anche discretamente: per dire, gli anni dello scialo !) tutti i ricercatori correvano a fare didattica perché volevano avere la titolarità dei corsi (che ottennero) e perché speravano alla fine di ottenere un bell’ope legis e alé, todos caballeros. Questo non è avvenuto (fortunatamente) e siamo tornati alle origini: i ricercatori non hanno obblighi didattici e sono in una posizione francamente insostenibile. Finché ci sono stati concorsi, certo, molti di loro avrebbero potuto semplicemente lavorare, produrre e vincere concorsi: perché non l’hanno fatto ? Viene il sospetto che molti di quelli più anzianotti che oggi fanno strepiti siano anche quelli che non hanno mai saputo presentarsi bene a un concorso. Diversamente per i più giovani (si parla sempre di 35enni in su !) i quali hanno avuto poche opportunità di concorso. In queste condizioni, comunque, bene, benissimo sarebbe la terza fascia docente. Concordo: finalmente responsabilità precise e magari anche incrementi stipendiali. Tanto più che l’assurdo è che oggi come oggi,il soddisfacimento dei requisiti minimi di docenza imposti dalla legislazione recente in modo assolutamente stringente richiede che nei conteggi siano inclusi anche i ricercatori (benché non abbiano obblighi). Si capisce bene cosa questo vuol dire: vuol dire che i ricercatori possono teoricamente far venire meno i requisiti minimi da un giorno all’altro e far crollare il castello messo in piedi con mille difficoltà. In queste condizioni, pagare (con somme ridicole) la didattica dei ricercatori è una misura che serve solo a mantenere sotto sicura una potenziale bomba a mano. Che i ricercatori si prestino (e che assumano comportamenti ricattatori) è una cosa irresponsabile, non degna di persone di scienza (ma molti hanno vocazioni ben diverse dalla scienza).
    Altra questione toccata da Bulow: che giornalisti e politici e addirittura ministri siano incompetenti in fatto di università è verissimo ed è semplicemente inaccettabile. Basta pensare ai ministri dell’università succedutisi dopo l’ultimo che avesse cognizione dei problemi, ossia Antonio Ruberti (1987-1992). Cosa sapevano di università i vari Podestà, Fontana, Moratti, Mussi, per citare i più recenti ? E anche gli Zecchino e i Berlinguer, che pure di università qualcosa sapevano, purtroppo hanno combinato più guai che altro, specie il Berlinguer dell’applicazione malfatta del 3+2 e di una riforma sbagliata dei concorsi. Possibile che la classe politica non sappia esprimere figure di prestigio e con solida peparazione a cui affidare l’università ? In Spagna, per citare un paese di indubbio dinamismo, ministro dell’educazione è Angel Gabilondo, un filosofo di valoreinternazionale, dunque un umanista, ma con grandi capacità e indiscusso prestigio. E’ proprio il segno che alla politica italiana dell’università non potrebbe interessare di meno.
    Ultima cosa: il reclutamento. Qui bisogna fare attenzione e precisare alcuni punti. 1) il reclutamento, anche con le recentissime riforme dei concorsi, avviene (è sempre avvenuto) con un misto di selezione nazionale (teoricamente una tutela scientifica) e di scelta locale della singola facoltà (ora semmai di ateneo: e qui il rischio dei favoritismi è altissimo, in mancanza di responsabilizzazioni precise). In passato predominava la selezione nazionale. Poi si è passati a una selezione che dava molta libertà alle scelte locali. Ora si è passati a un meccanismo complicatissimo, metà nazionale (commissioni tutte a sorteggio) e metà locale, ma con pericolose intromissioni di organi interni dell’ateneo (cosa che mette a rischio l’indipendenza dei singoli) e sempre senza meccanismi responsabilizzanti (ossia: l’università paga se fa scelte sbagliate). I risultati si vedranno, ma il meccanismo è sconcertante e probabilmente paralizzante, nel senso che forse non sarà nemmeno possibile portare a termine questi concorsi nuovi.
    Ciò detto, sarebbe certamente bene che il reclutamento lo facessero i dipartimenti, specie nel nuovo ruolo che verranno ad avere se si realizzeranno le linee guida del governo in materia di riforma dell’università. E comunque, facciamo attenzione: senza meccanismi responsabilizzanti il reclutamento decentrato è a rischio proprio di quel nepotismo che viene spesso lamentato (e che è sicuramente peggiore di altre, pur sempre odiose forme di favoritismo). Il punto cruciale, comunque, sono le risorse finanziarie. Moltissime università, anche le più prestigiose, sono in crisi finanziaria nera: per scelte avventurose in materia edilizia, oppure per eccesso di reclutamento in passato, oppure perché si sono indebitate sperando in ripianamenti pubblici. Le università che spendono troppo in personale (e si badi: personale docente e anche personale non docente) non possono reclutare. Trieste è fra queste. E’ sicuramente un problema, perché il corpo docente invecchia (il che non è necessariamente male: gli anni portano esperienza, capacità, prestigio, non è vero che un docente in là con gli anni diventa inerte o improduttivo, benché in certe discipline questo avvenga più che in altre e benché ci siano certamente casi, anche molti casi, di anziani docenti che non producono più cose significative). Il corpo docente invecchia e va in pensione e i posti che restano liberi non si possono rimpiazzare che in piccola misura (e comunque Trieste non può fare nemmeno questo perché non è a posto coi conti). Cosa resta per i giovani ? Teoricamente solo eventuali posizioni di ricercatore a tempo determinato (che sono indispensabili nei primi anni di ricerca postdottorato), ma con finanziamenti non dell’ateneo, che non ha il becco di un quattrino, ma semmai ottenuti dai docenti (spesso quelli anziani, ma anche da più giovani moilto bravi: e ce ne sono a Trieste eccome !) su grandi progetti finanziati dal ministero (pochi), dall’Europa, da enti di ricerca, da privati (pochi), dalle Regioni, dalle Fondazioni eccetera.
    Chiudo scusandomi per la lunghezza: l’argomento è appassionante, ho ascoltato opinioni anche giuste, che mi è sembrato importante commentare e (forse) precisare. Saluti

  38. brancovig ha detto:

    Condivido molte delle osservazioni di Duccio Galimberti e per rispondere a Luigi (Veneziano) l’univeristà rispecchia ben o male la società italiana. Ci sono persone oneste che dedicano molto impegno e tempo (week-end inclusi) ed altre che vivono di rendita. (Come in italia molti evadono il fisco).

    Il problema resta il reclutamento ma in verità il vero problema è la valutazione continua nel tempo di docenti e personale amministrativo.

    Altra considerazione è impossibile paragonare le Università italiane con le top university americane od inglesi. Intanto li ci sono i college (che dovrebbero corrispondere alle nostre lauree triennali). Un professore di Harvard nel mio campo di didattica frontale farà 20 ore anno e più è bravo meno fà. In Italia ti tocca dare 200 ore di lezione in miriadi di corsi in più un lista interminabile di appelli d’esame. Negli states che conosco bene il suo impegno prevalente è nella top formazione (dottorati) e nella ricerca.

    Li noi siamo carenti rispetto gli anglosassoni. Qui in italia todos caballeros (i dottorandi). Più si alza l’asticella meno facciamo selezione.

    Comunque nonstante tutto la formazione dei ragazzi è buona. Infatti nei fondi europei per i gioavni (ERC) european research council gli italiani sono risultati i primi (come numero di vincitori) prutroppo la maggior parte di loro lavora all’estero.

    Quindi c’è un problema di strutture e di prospettive nel sistema ricerca italiano.Non mi sembra che le Gelimi faccia molto per risolverlo.

    A proposito le Gelimini oltre a fare l’esame di stato nella sede dove tutti passano (W la meritocrazia) si è laureata con 100/110 in 3 anni fuori corso.

    Un ultimo commento su Peroni. Mi sembra che sia una espressione piena dell’accademia avendo ricoperto anche il ruolo di preside.
    In più sempre se non ricordo male ha spodestato Romeo nell’elezione per il suo rinnovo (fatto unico nella storia dell’ateneo triestino) che forse voleva introdurre qualche innovazione nella governance e quindi è stato rigettato dall’ateneo?

    Meditate meditate

  39. Duccio Galimberti ha detto:

    Brancovig ha toccato in chiusura del suo messaggio una questione assai delicata relativa al governo dell’ateneo di Trieste negli ultimi sei anni (3+3), col succedersi di due rettori radicalmente diversi l’uno dall’altro. Il tema richiederebbe tempo e spazio, perché credo che sia un punto cruciale se si vuole cercare di capire come si trova attualmente l’università di Trieste, cosa la connota dal punto di vista del funzionamento interno, cosa l’aspetta. Non so se c’è interesse a discutere di questo. Da parte mia lo farei volentieri, dato che nessuno dei problemi fin qui toccati e posti anche dall’intervista a Peroni (intendo dire: per quanto riguarda Trieste) può essere affrontato con lo sguardo concentrato solo sul presente e senza una ricostruzione a ritroso di medio-lungo periodo. Se altri sono interessati alla cosa possiamo anche aprire la discussione su questo.

  40. enrico maria milic ha detto:

    duccio, a me interessa certamente e possiamo vedere se riusciamo a cavarne un dibattito qua, nei commenti… magari può portare a qualche nuovo articolo o intervista.

  41. Duccio Galimberti ha detto:

    Per prima cosa, penso che sia necessario distinguere, da un lato, i problemi dell’università italiana a livello nazionale, e, dall’altro, i problemi propri di Trieste e causati non dalle politiche nazionali, ma da cattiva politica e cattiva gestione. I due piani sono ovviamente correlati in modo stretto. Se i governi non investono in ricerca,i guai sono per tutti, Trieste compresa. Se la legge scarica sull’università gli incrementi dei costi del lavoro derivanti da meccanismi automatici (Istat, anzianità, contratti) sono guai per tutti, Trieste compresa, perché i bilanci universitari vedono automaticamente aumentare la quota da destinare a spese di personale e non ci si può fare niente: questo provoca guai per tutti, Trieste compresa. E’ una specie di pietra appesa al collo di tutte le università, di cui non è nel potere dei singoli atenei sbarazzarsi. Se la politica nazionale non risolve il problema dei ricercatori, lasciando indefinito il loro stato giuridico e quindi il complesso dei loro diritti e doveri, questo è un male per tutta l’università italiana. Quello che un singolo ateneo può fare – conoscendo le regole del gioco (che stanno cambiando in modo significativo) – direi meglio: quello che “deve” fare è adottare politiche adeguate alla situazione data, deve esprimere tutto il meglio che ha al suo interno per rilanciare, cambiare, adattarsi ai tempi, interpretare un ruolo. Ci sono università che lo fanno per vocazione e per tradizione, per esempio i Politecnici del Nord, Bologna, la Bocconi. Purtroppo però la maggioranza delle università italiane è affetta da statalismo e da burocraticismo e da conservatorismo: tutti atteggiamenti frutto dell’abitudine pluridecennale a scaricare sullo Stato i propri costi e i propri debiti, senza responsabilità dei propri atti. Ma questo non può assolutamente essere una scusa per l’inazione. Negli atenei ci sono sicuramente gruppi, figure, forze, risorse all’altezza della crisi terribile che si sta vivendo. Anche a Trieste ci sono: dovrebbero solo venire fuori, affrancarsi da logiche accademiche di vecchio stampo che ancora pesano e voltare pagina. Voltare pagina.

  42. Duccio Galimberti ha detto:

    Visto che nessuno è intervenuto, provo a riattizzare il fuoco. Avete visto l’articolo del Piccolo sull’assenteismo all’università di Trieste ? E’ un bell’esempio di disinformazione a 360 gradi: l’università, in applicazione della scellerata legge Brunetta, pubblica dati sbagliati (bella figura !) e il Piccolo li riprende (p. 20 dell’edizione di ieri) senza nemmeno chiedersi cosa vogliano esattamente dire e generando un’impressione di svacco totale. Una roba da far vergognare sia i vertici dell’ateneo sia il direttore del Piccolo. Aspettiamo la smentita e le rettifiche.

  43. Luigi (veneziano) ha detto:

    Mi rifaccio al tuo messaggio precedente: quello che parlava dei costi per il personale che le università si vedono caricati e che in automatico salgono salgono salgono.

    Proviamo a fare un esempio pratico.

    Facoltà di giurisprudenza di Trieste. Per la laurea triennale sono attivi trentasei corsi, e fra di essi “Fondamenti romanistici del diritto europeo”, “Diritto di famiglia e delle successioni in Europa”, “Diritto europeo dei contratti”, “Storia delle codificazioni e delle costituzioni moderne” eccetera eccetera.

    Io non conosco e non voglio giudicare i professori di queste materie, ma sai che succedeva ai miei tempi? Succedeva che un tizio che guarda caso è un ordinario di vecchia data si trovava un allievo che voleva proprio mandare avanti a tutti i costi, e spingi di qua, spingi di là ecco che spuntava fuori una materia nuova in facoltà!

    Aumenta l’offerta didattica – si dirà – e in generale a questo corso vengono inviati “spintaneamente” gli studenti dell’ordinario di cui sopra.

    Poi si va a vedere, e i corsi vengono frequentati da cinque studenti.

    Una volta un celeberrimo professorone di letteratura latina di mia moglie ha definito questi corsi “Kinder”: per lui i professori stavano sulla porta dell’aula con dei Kinder in mano per attirarvi gli ignari studentelli.

    Ne dico un’altra che scatenerà – io credo – le reprimende di molti.

    Nella mia regione – il Veneto – ci sono quattro università principali:

    1. L’Università di Padova
    2. L’Univeristà Ca’ Foscari di Venezia
    3. L’Istituto Universitario di Architettura di Venezia (diverso da Ca’ Foscari!)
    4. L’Università di Verona

    Oltre a queste, tu puoi seguire corsi universitari di varie materie in circa venticinque sedi diverse, da Asiago a Portogruaro, da Mirano a Chioggia.

    A Mestre (!) esiste una sede distaccata dell’università di Udine (!!). A Bolzano c’è una sede distaccata dell’università di Verona e così via, così via, così via.

    Ma ti dirò di più.

    Alcune di queste sedi distaccate in Veneto sono delle cattedrali nel deserto, ed una di esse – della quale non faccio il nome – già in questi giorni ha il riscaldamento acceso h 24.

    Ci sono sedi distaccate di università che stanno a distanza di dieci chilometri l’una dall’altra: in pratica dei licei universitari. Puoi tranquillamente passare da uno all’altro in bicicletta.

    Più specificamente su Trieste, vedo che ha delle sedi distaccate a Pordenone, Gorizia e Portogruaro. Portogruaro, che è a pochi chilometri da Pordenone! Portogruaro, in un’altra regione, dove c’è pure una sede distaccata di Ca’ Foscari!

    Se arrivassero i famosi “manager” nel mondo universitario, hai presente il concetto di “razionalizzazione” come lo dovrebbero applicare? Con la falce.

    Luigi (veneziano)

  44. Duccio Galimberti ha detto:

    Luigi tocca una questione molto grave. Negli ultimi 15-20 anni la proliferazione di sedi universitarie distaccate ha assunto proporzioni ingiustificate, non c’è dubbio. E ne sono derivati danni e sprechi che molti, anche dentro l’università, hanno criticato e denunciato. Se è in parte vero che la nascita di tali sedi distaccate è stata dovuta al desiderio di creare piccole “riserve” di caccia per alcuni accademici, vanno però tenuti in conto altri fattori molto importanti, ossia: 1) il fenomeno della proliferazione di corsi di laurea o facoltà o singoli insegnamenti dietro la spinta di interessi di alcuni personaggi più o meno eccellenti è avvenuto soprattutto *dentro* le università, nelle sedi centrali e Trieste ne è un esempio lampante; 2) c’è stata una fase in cui si è ritenuto – erroneamente, certo – che l’apertura di sedi distaccate potesse realizzare un maggiore contatto tra università, mondo produttivo, territorio, esigenze della società (in certi casi questo ha portato alla nascita di nuovi atenei che si sono consolidati); 3) la presenza sul territorio è stata dovuta anche alla forsennata caccia alle matricole che università rivali hanno ingaggiato l’una contro l’altra spesso nella medesima regione o in regioni attigue; 4) chi ha voluto fortemente l’apertura di sedi distaccate di facoltà o di corsi di laurea sono state soprattutto le istituzioni locali, che in queste operazioni hanno investito fior di soldi per motivi, in questo caso, di caccia ai voti, di prestigio di politici locali, di interessi cittadini. Questo è talmente vero che, ora che in alcune regioni si stanno coraggiosamente chiudendo le sedi distaccate, le reazioni contrarie da chi vengono ? Dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni. Cosa concludere ? Che, secondo me, ancora una volta siamo di fronte al modo scellerato in cui in Italia è stato applicato il principio della cosiddetta “autonomia universitaria”. Un principio, questo, in base al quale ogni sede è stata lasciata fare quel che voleva, con scarsissimi controlli centrali sulle scelte politiche e di bilancio, col risultato che le politiche universitarie non le hanno fatte i governi (quelli che hanno sempre pagato), ma i giochi di interesse e di potere locali, coi quali le università sono state lasciate sostanzialmente libere di intrecciarsi. Mancanza di controlli (ruolo nullo dei Coreco, che ovviamente rispecchiano interessi territoriali), mancanza di responsabilità, mancanza di freni, mancanza di contrappesi istituzionali: ecco la scaturigine dei problemi, di tutti i problemi dell’università.
    Ma, anche se l’argomento proposto da Luigi è lungi dall’essere esaurito, vorrei introdurre un altro tema molto attuale: i meccanismi rappresentativi che regolano la formazione degli organi di governo dell’università (soprattutto Senati accademici e consigli di amministrazione). Altro argomento complesso, impossibile da esaurire in poche battute, anche perché forse pochi sanno che da università a università, al di là delle somiglianze apparenti, c’è una grande varietà di criteri di rappresentanza e dunque di composizione degli organi collegiali: anche all’interno di uno stesso ateneo possono esserci (come a Trieste) di diritto o di fatto criteri che si sovrappongono, si mescolano, interferiscono l’uno con l’altro creando una gran confusione che è il risultato di adattamenti, come si dice, piecemeal, degli statuti, ormai veri pasticci incongruenti che fior di docenti di diritto costituzionale hanon contribuito a peggiorare (esempio: rappresentanza per area scientifica, rappresentanza per tipologia di personale, rappresentanza per tipologia di struttura sottostante, rappresentanze sindacali, rappresentanze studentesche di vario livello). Attiro l’attenzione su un solo punto: la assoluta inconsistenza del carattere rappresentativo di certi membri che fanno parte di organi collegiali su base, appunto, rappresentativa e non di diritto. Per capire questo punto basta vedere i risultati delle ultime elezioni dei rappresentanti dlla aree scientifiche nel Senato academico dell’università di Trieste (disponibili sulla pagina web dell’ateneo). Ci sono figure che sono state elette dal 15 % dei votanti, ossia con tredici voti; oppure dal 9 %, con 8 voti; in media generale non ha votato nemmeno un terzo degli aventi diritto. Ma vi pare una cosa sensata ? Basta che un qualsiasi maneggione telefoni a una decina di amici e il gioco è fatto: quel maneggione in teoria dovrebbe portare in Senato accademico la voce di un più di un centinaio di persone. E se quel maneggione è una figura di profilo scientifico nullo ? o addirittura motivato più da interessi di parte che da conoscenza dei problemi e capacità di interpretare gli interessi generali dei suoi elettori ? La colpa di un simile assurdo è certamente degli elettori tutti, ovvio, i quali si disinteressano di chi andrà a formare un senato accademico. L’assentesimo è un fenomeno gravissimo. Ma è anche colpa di un sistema falsamente rappresentativo, che permette queste storture quando basterebbe introdurre un quorum ragionevole, che impedisca esiti così paradossali. Senza tener conto, poi, che la demagogia rettorale (caccia al voto e al consenso specie verso la categoria più sindacalizzata) ha fatto sì che un ricercatore possa rappresentare ordinari e associati e purtroppo parlare in loro nome o decidere al posto loro. Il problema non è se un ricercatore possa o non possa sedere in un Senato accademico: ma sarebbe bene che vi sedesse semmai in rappresentanza della sua categoria, non di un’area scientifica, i cui problemi forse sono meglio compresi da chi ha un po’ più di capacità, esperienza e valore scientifico. Ancora una volta: colpa di un sistema rappresentativo sballato e non rappresentativo di alcunché; ma anche e soprattutto colpa di un corpo elettorale che si disinteressa platealmente di chi andrà a rappresentarlo. Ecco gli esiti di una falsa democrazia, di una rappresentatività del tutto fasulla, che permette a chiunque sappia sfruttarne le debolezze di ricavarsi un posto di cui niente, se non il successivo appuntamento elettorale, garantisce che sia degno. Inganno, ipocrisia, disimpegno, assenteismo, confusione e sovrapposizione di interessi personali e privati a interessi generali: questi sono i disvalori che dominano l’università, insomma, il peggio della politica, ma in una concentrazione chimica inquinante e che avvelena ogni buona intenzione.

  45. bulow ha detto:

    aggiungo carne al fuoco: sapete quanto costano gli abbonamenti alle riviste? solo la elsevier chiede all’ universita’ di trieste un milione di euro all’ anno. ne vogliamo parlare? vogliamo cioe’ parlare del fatto che, al netto degli sprechi (che ci sono), esistono anche problemi strutturali? questo in particolare e’ un problema che si puo’ risolvere in un solo modo: decidendosi una buona volta, a livello planetario, a togliere l’ editoria scientifica dalle mani delle multinazionali, restituendola alla comunita’ scientifica.

  46. lanfur ha detto:

    Singolare che in luoghi dove spesso si pretende di insegnare economia non si sia capaci di metterla in pratica.
    D’altra parte, perchè se uno è tanto bravo in economia debba fare il professore invece che mettere in pratica la sua conoscenza e vivere ricco e felice?

  47. Duccio Galimberti ha detto:

    Quello del costo degli abbonamenti ai grandi distributori di riviste è un problema serissimo per tutte le discipline. Non c’è dubbio che siamo di fronte a una situazione di semi-monopolio, diciamo di oligopolio da parte di alcuni grandi operatori. Ma la cosa non riguarda solo le riviste. Ormai c’è una gran quantità di straordinarie risorse digitali online che hanno cambiato radicalmente il modo di fare ricerca. Questo ha creato uno “scientific digital divide” tra le università che se le possono permettere, quelle che se lo possono permettere grazie all’azione di mediazione e sostegno da parte dei governi (che contrattano accessi a livello nazionale, dando pari opportunità a università grandi, medie e piccole: caso dell’UK e dell’Olanda, per dire due paesi) e, infine, università che semplicemente non possono permettersele e dunque restano al palo: Trieste è di queste. E pensare che i ricercatori si intestardiscono a chiedere fondi personali di ricerca sotto forma di una specie di obolo ad personam ! Ma dove vivono ? Penso non oltre Barcola.

  48. bulow ha detto:

    le grosse case editrici succhiano il sangue delle casse pubbliche due volte. i ricercatori, che sono pagati dalle universita’, forniscono gratis i contenuti alle riviste, e sempre gratis svolgono il ruolo di reviewer. poi le case editrici rivendono a carissimo prezzo alle universita’ il prodotto dei loro stessi ricercatori. credo che la comunita’ scientifica dovrebbe cominciare a ribellarsi a questo meccanismo. grazie alla rete, avrebbe la possibilita’ di organizzare in proprio tutta la “filiera” della comunicazione scientifica. purtroppo pero’ all’ interno della stessa comunita’ scientifica, a livello internazionale, c’ e’ chi riesce a fare un sacco di soldi proprio grazie a questo meccanismo. i vecchi baroni al confronto sono dei patacca.

  49. bulow ha detto:

    comunque e’ vero che all’ estero i governi si fanno carico di garantire alle universita’ l’ accesso alle riviste e ai database. in italia cio’ non avviene, e questo e’ un indice inequivocabile del disinteresse dei politici nostrani nei confronti della ricerca.

  50. Marisa ha detto:

    @ Enrico Maria Milic

    Perchè in questo POST non è stato aggiunto, come commento, il documento (vedi Forum di Bora.la) a firma di Giovanni Pavan – presidente del Consorzio Universitario di Pordenone? E vero che il documento del consorzio è stato pubblicato nel Forum del Blog Bora.la, ma una risposta del rettore Peroni, pesantemente confutata documentandola, dal Consorzio universitario di Pordenone è pubblicata in questo Post…
    E dunque anche qui dovrebbe, a mio avviso, essere publicata la REPLICA del Consorzio Universitario di Pordenone.

    Inserendo la replica in altro luogo del Blog, può non essere letta e comunque manca il testo di riferimento: l’intervista al Rettore Francesco Peroni. Intervista pesantemente confutata dal Consorzio Universitario di Pordenone.

  51. Marisa ha detto:

    Bora.La Forum » Su Bora.La

    Sulle dichiarazioni di Peroni sulla sede universitaria pordenonese

    In merito alle dichiarazioni rilasciate dal prof. Francesco Peroni, Rettore dell’Università degli Studi di Trieste al sito “bora.la”, circa le motivazioni della chiusura di un percorso in “Scienze del Servizio Sociale” a Pordenone, il Consorzio Universitario di Pordenone precisa quanto segue.
    I corsi triennale e specialistico di scienze del servizio sociale erano organizzati con successo dall’Università di Trieste a Pordenone, in collaborazione con il Consorzio e con gli stakeholder locali, che contribuivano in modo importante alla piena riuscita degli stessi, ad esempio garantendo l’individuazione di stage e tirocini. L’opportunità di mantenere detti corsi a Pordenone era data in primo luogo dall’assetto del mercato del lavoro: nella Destra Tagliamento ha sede la maggioranza di aziende del terzo settore di tutto il Friuli. È per questo motivo che un corso specialistico era mantenuto a Pordenone, mentre non lo era a Trieste, sede del solo corso triennale.
    Fino all’A.A. 2008/2009 l’Università di Trieste manteneva pertanto due corsi triennali, uno a Trieste e uno a Pordenone, e un solo corso magistrale, a Pordenone.
    Per questo attiene gli immatricolati, usualmente al corso triennale di Pordenone si iscrivevano circa 50-60 matricole su 60 posti disponibili; laddove il corso a Trieste immatricolava numeri sostanzialmente più bassi: pare solo 10 iscritti al primo anno nell’A.A. 2008/2009, a fronte di 60 posti disponibili. Per quanto attiene la magistrale, non presente a Trieste, essa immatricolava a Pordenone circa 20 persone l’anno. È quindi chiaro che, per la stessa organizzazione dell’economia locale e predisposizione degli studenti e delle studentesse a iscriversi ai corsi di laurea in sevizio sociale, la sede pordenonese fosse quella preferita dagli studenti e dalle famiglie.
    Ne consegue che, se costretti a chiudere un “doppione”, l’Università di Trieste avrebbe dovuto ponderare con attenzione dove vi era richiesta di formazione e di laureati in detta disciplina e dove insisteva il numero più importante degli iscritti.
    Il costo delle strutture e del mantenimento degli immobili, a Pordenone, era ed è per l’Università di Trieste pari a zero, contrariamente a quanto avviene in altre sue sedi distaccate, dove è risaputo l’Ateneo necessita di spendere somme considerevoli per gli spazi.
    Così come da convenzione generale sottoscritta tra le parti, il Consorzio mette a disposizione dell’Università degli Studi di Trieste a Pordenone congrui spazi segreteria, uffici per i docenti, uno spazio biblioteca, posteggi riservati, sale seminari, laboratori informatici, oltre a 47 aule per la lezione di varia metratura. Detti spazi sono completamente a carico del Consorzio: utenze, pulizie, manutenzioni, sorveglianza non pesano, né mai hanno pesato, in alcun modo per le casse dell’Università di Trieste.
    L’argomentazione del prof. Peroni a riguardo (coloro che non si sono iscritti a Pordenone ora causano all’Ateneo un dispendio di energie per la ricerca degli spazi su Trieste) è a nostro avviso fuorviante: se già negli anni precedenti era prevista la possibilità a 60 ragazzi e ragazze di immatricolarsi nel corso triennale di scienze del servizio sociale a Trieste, e avendo l’ateneo mantenuto per quest’anno accademico in 60 i posti disponibili, gli spazi per la triennale a Trieste avrebbero già dovuto essere individuati negli anni accademici precedenti, e non si capisce quale “notevole impatto” possa aver avuto un aumento di iscritti fino alla soglia (60) già prevista negli anni precedenti. Tanto più che, a quanto pare, gli immatricolati di quest’anno 2009/2010 siano 40 (quindi, 30 in meno della somma tra gli immatricolati delle due sedi pordenonese e triestina dell’anno scorso).
    Per quanto attiene l’affermazione del Rettore riguardo i finanziamenti che il Consorzio avrebbe cancellato ([…] togliendoci i finanziamenti che alimentavano nell’ordine di decine di migliaia di euro quei corsi) è utile precisare quanto segue, limitando l’analisi ai corsi di scienze del servizio sociale.
    Dall’anno 2003 il Consorzio ha versato a favore dei corsi di scienze del servizio sociale la somma di € 401.369,03. L’impegno con la facoltà era di corrispondere annualmente la somma di € 60.000: tale somma è stata regolarmente versata, su diretto riscontro di rendicontazione, e tale somma è rimasta ed è a disposizione fino all’A.A. 2008/2009 (anno per il quale non è ancora pervenuta rendicontazione dall’Ateneo). Nella primavera del 2009 la Facoltà, supportata dall’Ateneo, ha richiesto al Consorzio, per il mantenimento dei due corsi a Pordenone, la somma di € 150.000 annui, più del doppio di quanto regolarmente stanziato. A fronte di ciò, il Consorzio ha replicato che tale somma non poteva essere raccolta tra i Soci, ma che si sarebbe impegnato a versare alla Facoltà la somma di € 75.000 per ogni anno accademico.
    La risposta della Facoltà e dell’Ateneo è stata di chiudere i corsi a Pordenone.
    In questo contesto, appare singolare che il Rettore lamenti la chiusura delle linee di finanziamento, dal momento che non vi è più progettualità alcuna da finanziare a Pordenone, i corsi essendo stati trasferiti a Trieste. Per sua scelta, l’Ateneo ha quindi perso un finanziamento esterno considerevole.
    Riguardo quanto riportato ovvero che “la comunità pordenonese si è offesa, imbestialendosi […]”, rammentiamo al prof. Peroni che alcun commento sulla vicenda è provenuto dal Consorzio, interlocutore di riferimento per l’Ateneo e la Facoltà, nonché erogatore dei finanziamenti e ente deputato al mantenimento della sede.
    Chiamati in causa, aggiungiamo quanto segue. La comunità pordenonese è stata privata di due corsi funzionali alle esigenze di formazione del territorio, finanziati in modo consistenze (fino a € 60.000 all’anno), ubicati presso una sede nuova, costruita, con fondi pubblici, per ospitare corsi universitari, che attraevano annualmente tra le 80 e le 90 matricole, le quali, di converso, trovavano impiego in tempi inferiori alla media nazionale in un territorio, quello pordenonese, ricco di esperienze nell’ambito del terzo settore e della cooperazione.
    Decine di studenti e studentesse che fino all’anno scorso studiavano a costi molto contenuti a Pordenone sono oggi costretti a trasferisti fuori provincia (non necessariamente a Trieste, come dimostrato dai numeri degli immatricolati, ma anche, ad esempio, a Venezia) di fatto impoverendo il territorio provinciale e regionale o, peggio, costringendo molti studenti a non immatricolarsi.
    Se l’Ateneo ha deciso di chiudere la sede pordenonese, contrariamente a quanto lo stesso Ateneo sta facendo per altre sedi secondarie, questo non è imputabile al Consorzio, né ai suoi Soci, né alla comunità pordenonese, ai quali non si può contestare l’aver rifiutato un aumento della richiesta di contribuzione ai corsi (già di per sé un’anomalia) nell’ordine del 150% rispetto all’anno precedente, né l’ipotetico aumento di spesa per gli spazi nella sede principale aumento che, in una gestione manageriale di un Ente, avrebbe dovuto e potuto essere previsto e preventivato quale esito scontato della linea prescelta.

    Giovanni Pavan
    Presidente
    Consorzio Universitario di Pordenone

  52. Duccio Galimberti ha detto:

    Il documento del consorzio è eloquente e impressionante. Chi segue un po’ le vicende nazionali sa che la chiusura delle sedi o dei corsi distaccati – dove è stata effettuata – ha suscitato reazioni negative da parte degli enti locali, che in genere ne hanon sostenuto i costi di avvio. Talvolta però erano le condizioni oggettive a raccomandare decisioni del genere: esiguità degli iscritti, disagio per docenti e finanche per studenti, impossibilità provata di sviluppare strutture adeguate a supporto dei corsi. Nel caso di un corso di tipo particolare come quello di Pordenone, come il documento del Consorzio spiega molto bene, non pare proprio che tali precondizioni sussistessero. Al contrario, parrebbe che fosse vero il contrario. Sarebbe interessante sentire una replica di Peroni, o meglio, visto che non c’è solo Peroni, di altri, per esmepio il delegato alla didattica oppure i responsabili dei corsi di Pordenone. In mancanza di controargomenti viene il sospetto che la decisione di chiusura da parte del rettore e degli organi dell’ateneo non sia stata sufficientemente meditata, sia frutto di un decisionismo improvvisato e senza precedenti nel primo triennio di rettorato per l’ovvio e opportunistico motivo che prendere decisioni significa mettere a rischio la rielezione. Magari La Bora potrebbe sollecitare l’ateneo a rispondere.

  53. brancovig ha detto:

    Ho visto anch’io i dati dei votanti per il senato accademico dell’Università di Trieste.
    Sono rimasto molto stupito dello scarso interesse di molti docenti per questo importante organo decisionale accademico.

    Qual’è il problema? perchè non c’e’ interesse ed una volontà ad intervenire nella gestione dell’università?

    Ripeto sono rimasto molto sorpreso da questo scarsissimo interesse dei docenti verso il proprio ateneo

  54. Duccio Galimberti ha detto:

    La scarsa partecipazione e la scarsa identificazione con l’istituzione cui si appartiene è un dato abbastanza comune nelle università italiane e che ha ragioni profonde di cui sarebbe lungo discutere. A Trieste è particolarmente grave perché è il segnale che l’ateneo non motiva i suoi membri, non li coinvolge, non offre prospettive, non ha risorse da utilizzare per ricerca e per reclutamento, e nei suoi vertici è sprofondato in una inerzia e in una mancanza di idee che fa paura. In una situazione del genere, a chi volete che importi chi sta in Senato o in CdA ? Ovviamente questa è una ipotesi di spiegazione, ma non una giustificazione. Anzi, la cosa è grave. E tanto più grave perché nel disinteresse generale si fanno eleggere i meno capaci e i più intrallazzoni: non sempre, sia chiaro, non sempre, ma ne abbiamo alcuni esempi lampanti. Aggiungo una cosa ancora. Nonostante vuote dichiarazioni di coinvolgimento e di democraticità, il presente rettorato si è segnalato e si sta segnalando per un assoluto verticismo. La stessa riconferma del presente rettore – candidato unico ! – è stata il frutto di tutto fuori che di un aperto confronto di idee. Che infatti non ci sono. E la rielezione è stata decisa da un ristrettissimo gruppo composto non esattamente da giovanotti.

  55. Luigi (veneziano) ha detto:

    Non entro nel merito della questione dei corsi universitari di Pordenone, ma noto che l’Italia è probabilmente l’unico paese d’Europa dove si ritiene “normale” che non solo ci sia un centro universitario in ogni capoluogo di provincia, ma addirittura che vi sia una sede universitaria in un numero notevole di paesi e paesucoli. Oltre venti solo nella mia regione (il Veneto).

    Venti sedi universitarie in una regione di 4,8 milioni di abitanti!

    Quando un po’ di tempo fa s’è pensato di creare un “Politecnico del Nord Est”, che fosse un’università d’eccellenza che eliminasse una serie di doppioni localistici, i primi che si opposero strenuamente chi furono? I docenti universitari di tutti gli ordini e gradi.

    Vogliamo girare un po’ il coltello nella piaga?

    A Udine c’è una facoltà – quella di veterinaria – che negli ultimi cinque anni non ha mai superato i 225 studenti iscritti IN TUTTO (tre più due). Per questi 225 studenti sono previsti tre corsi di laurea triennali ed uno specialistico. I dipartimenti della facoltà sono quattro. Gli insegnamenti attivi sono sessantotto.

    Bisogna commentare?

    Luigi (veneziano)

  56. brancovig ha detto:

    @per duccio
    Sono comunque sorpreso che i docenti di “buona volontà” non abbiano presentato delle candidature. Il senato è un importante occasione di confronto di discussione e di possibilità d’intervento, anche in contrapposizione con il potere governante.

    Perchè questo non si è realizzato?

    @per Luigi
    come ho indicato in un precedente mail l’università con il 3+2 è cambiata radicalmente

    vogliamo chiamare corsi universitari ad esempio in corsi triennali per infermieri o per ostetriche?

    Quelli che tu elenchi come sede universitarie potremmo in verità definirli college ed in questo senso potrebbero essere abbastanza diffusi nel territorio come luoghi esclusivi per la didattica senza ambizioni di ricerca.

    Le specialistiche e più ancora i dottorati devono essere concentrati (ed in larga parte lo sono nelle sedi centrali)

    La proliferazione delle sedi è legata alla debolezza economica degli atenei che quindi sono ricattabili dal poter politico locale (ambizioni di avere sedi universitarie in ogni paese comunque porta vita e ricchezza e quindi voti). La lega nord docet su questo.

    Il problema principale di medicina veterinaria è quello di essere una focoltà senza il vero corso di laurea. Come aver attivato la Facoltà di Medicina ma senza il corso di laurea in medicina e chirurgia. Come minimo bizzarro quindi visto i tempi …. da chiudere

  57. Luigi (veneziano) ha detto:

    @ brancovig

    Scusami, ma ho letto in ritardo il tuo messaggio, per cui ti rispondo solo ora.

    In Italia esistono circa 300 corsi di laurea che l’anno scorso hanno avuto un numero di frequentanti pari a 5 o meno di 5.

    In Italia esistono circa 600 sedi universitarie (“college”, tu li chiami), ovverosia luoghi ove con soldi pubblici si formano i giovani. Di queste 600 sedi, quasi la metà è frequentata da meno di 50 studenti, oltre a ciò spesso e volentieri queste 600 sedi sono a distanza di 10/20 chilometri l’una dall’altra. In pratica, invece di fare una sola sede per 150 studenti, se ne sono fatte tre per cinquanta studenti!

    Esiste qualche altro paese al mondo che gestisce le proprie (scarse) risorse per lo studio d’elite in questo modo? Credo proprio di no.

    Tu sai meglio di me come spessissimo sono state create queste sedi locali: siccome il ras politico locale deve fare felice il proprio collegio (o il proprio comune), allora in barba a qualsiasi ragionevolezza gestionale ha fatto o ha fatto fare una bella telefonatina al rettore o al preside o al direttore di dipartimento universitario, che ha mosso le sue sapienti leve del “do ut des” interne all’università, e tutti sono contenti.

    Quando ho fatto il militare negli alpini, solo a Belluno c’erano sei caserme principali, poi oltre a queste c’era una serie di caserme e casermette locali dove in pratica il maresciallame andava a farsi un bel periodo di ferie: più che caserme delle vere e proprie baite di montagna, come per esempio il distaccamento di Arabba, ambitissimo nel periodo invernale.

    Dove abito io – a Lido di Venezia – un intero tratto di arenile è del demanio militare, e lì trovi un paio di centinaia di capanne della marina militare e dell’esercito. Fino a pochi anni fa, alcuni militari di leva come servizio facevano i camerieri o i cuochi o i bagnini o i falegnami o ancora i giardinieri dei militari in vacanza, che ovviamente accedevano alle strutture loro riservate pagando una pipa di tabacco.

    Le baite di Belluno riservate ai marescialli in vacanza sono state chiuse, i militari di leva per servire i militari in spiaggia non ci sono più, ma continuano a rimanere le scuolette universitarie derivanti da un padrinato politico/universitario che se frega altamente delle decantatissime regole di mercato. Tanto, il suo stipendio un professore universitario ce l’ha e ce l’avrà sempre, qualsiasi cosa faccia, comunque insegni, che faccia o non faccia ricerca, che sia o non sia adatto a ricoprire il suo ruolo.

    Questi basano il proprio potere su clientele oliatissime, nonché sul potere di vita o di morte che hanno su una massa di precari costretti a baruffare fra di sé per rosicare l’osso già ampiamente spolpato.

    Su questo io ho delle idee probabilmente fastidiose, ma assolutamente radicali: premiare solo e unicamente il merito, evitare qualsiasi incistamento di luoghi di potere locali di docenti vari, imponendo una verifica di qualità periodica basata su una serie di criteri oggettivi (peer-review, per esempio) e soggettivi (come per esempio dei vari test di qualità degli studenti).

    Oltre a ciò, chiusura immediata di una serie di facoltà e corsi inutili per mancanza dei requisiti minimi per la loro sopravvivenza, primo fra tutti un numero minimo di studenti.

    Luigi (veneziano)

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