28 Aprile 2008

La sconfitta di Illy e del centrosinistra

Il parlamentare del PD, Alessandro Maran, ci scrive e ci manda la versione estesa di un testo già apparso sul Piccolo: “Caro Milic, ho letto le sue riflessione e Le invio la mia versione dei fatti. Cordiali saluti, Alessandro Maran”.

Illy.

La sconfitta di Illy è, come sempre accade, figlia di errori tattici e politici. Tutta colpa di Illy? Ovviamente no. Ma non sta in piedi neppure la storia che quando si vince è merito di Illy («isolato ma illuminato monarca») e quando si perde è tutta colpa dei partiti. Specie se si considera che l’insieme del sistema di rappresentanza e di regolazione politica non è più quello di una volta. E’ cambiata la forma di governo e ora c’è l’elezione «diretta» del presidente. E, come sanno tutti i ragazzini che hanno visto l’Uomo Ragno, «da grandi poteri derivano grandi responsabilità».

I partiti.

Dopo quelle di Illy, vengono, naturalmente, anche le responsabilità dei partiti. Di partiti privi (a cominciare dal Pd) di una visione autonoma e condivisa della storia d’Italia e del nostro tempo; che, rimanendo aggrappati ad Illy, hanno evitato di fare i conti con le tradizioni di provenienza, con un bagaglio di idee e di concezioni superate, con retaggi del passato ormai svuotati del senso che ebbero.

maran.jpgGiustificare ogni cosa sostenendo che «solo con Illy si vince» è stato, in altre parole, un modo per sottrarsi al cambiamento e rimanere identici a sé stessi. Confermando, se ancora ce ne fosse bisogno, l’incapacità della sinistra riformista italiana di promuovere (a differenza di quanto è accaduto in tutti i paesi europei) un’aperta battaglia culturale all’interno del proprio «mondo di riferimento» in difesa di quelle idee che aveva annunciato come l’orizzonte della propria azione politica.

Errori tattici: l’election day.

Tra gli errori tattici c’è la scelta dell’election day. Perché su tutto ha pesato il voto politico. Imprevedibile? Nemmeno per sogno. Basterebbe ricordare che, nel 2003, Illy aveva condotto una campagna volta a «depotenziare», per quanto possibile, gli aspetti politici della competizione. Allora, infatti, ad Illy era riuscita, scriveva Paolo Segatti, «un’operazione molto difficile, quella di tener mobilitati gli elettori di centrosinistra, sulla base di una coalizione molto vasta che includeva Rifondazione Comunista e i Comunisti italiani, riuscendo però ad evitare di attizzare il voto ideologico e quindi la contro-mobilitazione del fronte avverso».

Scegliendo (Illy, da solo) la coincidenza delle elezioni regionali con quelle politiche, stavolta non c’è dubbio che ce la siamo cercata. Il punto è però che quella scelta non deriva unicamente dagli errori dei sondaggisti, ma dall’idea, accarezzata anche da una folta schiera di commentatori ed editorialisti, che ci potesse essere un «effetto Illy», una sorta di «traino» locale, da contrapporre all’effetto Berlusconi.

Quasi che la Regione potesse rivelarsi un ambito di transizione «separato» dal sistema politico italiano. Potremmo limitarci a citare il Vangelo:«Guai a voi quando gli uomini diranno bene di voi»(Lc, 6, 26). Ma vale la pena di tornarci su. Perché è ora di mettersi in testa che il Friuli Venezia Giulia partecipa in tutto e per tutto alle questioni che investono l’esperienza di essere uomini e donne nell’Italia di oggi e che non c’è modo di «smarcarsi completamente dall’agenda politica nazionale». Non era un mistero per nessuno che, tanto per fare un esempio, l’effetto Visco, dopo essersi fatto sentire positivamente sulle finanze pubbliche, avrebbe condizionato negativamente il voto. O no?

Errori politici: la «solida visione».

Ci sono stati anche degli errori politici. Resto dell’opinione che Riccardo Illy e il centrosinistra abbiano introdotto miglioramenti significativi nella vita pubblica regionale e che non ci sia proprio paragone con lo spettacolo desolante dei governi precedenti. Ma forse il problema sta proprio nella «solida visione politica di Illy».

Nel 2003 il centrosinistra aveva opposto un imprenditore «cosmopolita» (Illy, appunto) ad una esponente della Lega (Alessandra Guerra) impegnata nella promozione di un’idea etno-culturale delle diversità della Regione. Ma Illy, strada facendo (e per me, che quand’ero segretario dei Ds ho fatto i salti mortali per candidarlo, inspiegabilmente), ha fatto sua proprio «quella» idea e, con essa, il tentativo di ricostruire identità e senso sulla base di un passato idealizzato e la tentazione di reagire alle sfide del nuovo quadro competitivo opponendo alla (ormai logora) bandiera del mercato quella (oggi di moda) della «comunità».

Per questo la legge sul friulano è stata, come ha scritto domenica scorsa Paolo Segatti, un’occasione persa «per rispondere in modo diverso da quello auspicato dalla destra alla domanda di difesa delle identità in un territorio plurale». Per questo Illy ha fatto ricorso ad argomenti etnici per giustificare la specialità; ha finito per proporci come (improbabile) modello la Confederazione Svizzera; ha rispolverato il Patriarcato di Aquileia e brandito la stessa Euroregione come motivo per «fuggire da Roma». Non ha funzionato. Anche perché, lo ripeto, non c’è verso di scappare. Come ha confessato Flaubert, «Madame Bovary, c’est moi». Roma siamo noi. Per sincerarsene, basta entrare in un ufficio pubblico qualunque. E desiderare di trovarsi in una «diversa» Regione implica anzitutto «rifare» la sua amministrazione. Rimarrebbe da chiedersi: non ce l’abbiamo fatta o non ci abbiamo neppure provato?

Euroregione. Una postilla sull’Euroregione.

Vediamo di capirci. Euroregione è un’espressione ambigua che può voler dire cose molto diverse tra loro. Può essere utilizzata per indicare soluzioni istituzionali di collaborazione transfrontaliera ed interterritoriale che possono essere fra loro molto diverse e che pongono problemi differenti di diritto costituzionale anche in relazione ai diversi quadri di riferimento che possono essere assunti. Per capirci, una cosa è scegliere una soluzione di mero coordinamento degli enti territoriali interessati e un’altra è scegliere una soluzione che implichi la creazione di una struttura stabile con specifiche funzioni.

E si può collocare l’iniziativa nel contesto degli ordinari rapporti internazionali, oppure adottando strumenti riconducibili a quelli della cooperazione transfrontaliera ed interterritoriale proposti dal Consiglio d’Europa o ancora scegliendo di operare all’interno dell’Unione europea. A quanto sembra di capire, Illy intende(va) perseguire tale obiettivo attraverso la creazione di un ente al quale potessero concorrere più entità territoriali infranazionali dell’area centroeuropea. Ma una soluzione del genere è molto problematica. Alla base comunque vi dovrà essere infatti un’esplicita autorizzazione dell’ordinamento di appartenenza degli enti infranazionali coinvolti.

Resta da vedere in che misura lo Stato consentirà alla Regione di assumere al riguardo iniziative autonome o se, piuttosto, accetterà di limitarsi a predisporre il quadro all’interno del quale la Regione potrà compiere liberamente le sue scelte. In ogni caso, il trasferimento di poteri a vantaggio di una entità estranea al nostro ordinamento può avvenire solo nella misura in cui restino assicurati i poteri di controllo degli organi rappresentativi nazionali e regionali. Scelte diverse possono implicare un’uscita di funzioni pubbliche dal quadro costituzionale di controllo. Sul punto, rinvio alle osservazioni proposte dal prof. Sergio Bartole.

Per quel che può valere, comunque, tra me e l’Euroregione non si frappongono «considerazioni burocratiche di politica nazionale». La formalità delle procedure è qui garanzia della nostra libertà eguale che, grazie a Dio, non dipende dalla benevolenza del «monarca illuminato» di turno. La «ossessione repubblicana nazionale» (di Veltroni e mia) è semplicemente l’idea della perdurante vitalità, ai fini della identità della nazione italiana, dei valori che sono alla base del «patto» costituzionale. Cioè del legame che in esso si stabilisce tra nazione e (valori, contenuti e forme della) cittadinanza.

Nel dopoguerra è questo il legame che ha caratterizzato l’evoluzione dell’idea (democratica) di nazione e che rimane un punto di riferimento per elaborare risposte efficaci alle sfide di oggi che impongono mutamenti che tuttavia possono essere affrontati solo partendo dal nesso fra nazione e cittadinanza. Certo rinnovandolo e riadattandolo. Ma è la Costituzione della Repubblica che garantisce i diritti di ciascuno (compresi quelli delle minoranze) e limita i poteri; è la Costituzione che ha stabilito con grande lungimiranza l’autodelimitazione della sovranità e il riconoscimento della sovranazionalità. L’idea di nazione che si è affermata non è infatti separabile dal legame tra antifascismo, welfare e interdipendenza. Visto che domani è il 25 aprile, forse è il caso di ricordarlo.

La pluralità dell’identità.

C’è, indubbiamente, dell’altro. La sconfitta di Illy è figlia dell’insediamento maggioritario del centrodestra (nel Paese e nella Regione) che dura immutato da 18 anni, un’era politica pari a quella della Thatcher. E’ figlia anche della «estraneità» del centrosinistra a questa parte dell’Italia. Si scopre adesso una correlazione impressionante fra il crollo dell’Arcobaleno e l’avanzata della Lega.

C’entra il progetto federalista? Neanche per idea. Il fatto è che il neoprotezionismo di Tremonti e l’ostilità verso gli immigrati della Lega interpretano l’anti-globalismo meglio dei movimentisti e dei transgender. Solo la nostra ossessione per le identità e gli equilibri territoriali pretende di spiegare tutto (ne ha parlato di nuovo qualche giorno fa Sergio Ceccotti sul Piccolo) con l’interminabile disputa tra Udine e Trieste, col fatto che Illy e Zvech sono entrambi «triestini». Ma le nostre identità hanno natura plurale. Nella nostra vita quotidiana facciamo parte di una serie di gruppi. La stessa persona può essere di cittadinanza italiana, di origine ungherese, cristiana, progressista, donna, vegetariana, insegnante, femminista, eterosessuale, ambientalista, judoka, tifosa del Milan, amante del teatro e appassionata di jazz. E ognuna di queste identità, a cui appartiene simultaneamente, le conferisce «una» identità.

Ma nessuna di esse può essere considerata l’unica identità o l’unica categoria di appartenenza di quella persona. Com’è infatti che Renzo Tondo vince in Friuli dopo aver mandato a quel paese gli industriali di Udine (o meglio, la loro rappresentanza) e dopo aver detto a chiare lettere, come Fantozzi con la Corazzata Potëmkin, che «quella» legge sul friulano è una «c…… pazzesca»? Forse basterebbe parlarci, con gli operai, gli anziani, la piccola borghesia, per scoprire come la pensano. Per rendersi conto, ad esempio, che si sentono impoveriti e minacciati dagli immigrati – che guarda caso a Pordenone, sono il triplo della media nazionale.

Dubito perfino che, per l’avvenire, le identità locali, lo spirito autonomistico, le fratture territoriali, il contrasto tra società e politica, possano trovare ancora «rappresentazione» nella riedizione di liste civiche e movimenti separatisti o nella rivendicazione etnica. E neppure nello «spettacolo del Nord-Est» (proteste, convegni, mass-media, ecc.) degli anni scorsi. Oggi le cose sono cambiate. Dopo aver a lungo inseguito il modello catalano, quello scozzese e quello bavarese, le proteste dei produttori e degli autonomisti si sono spostate a Roma.

E quelle proteste oggi vengono «regolate» dal centro; vengono «rappresentate» da Bossi e Tremonti; vengono «riassunte» dal premier, leader di un partito nazionale per insediamento elettorale e organizzativo. E il decentramento coesiste con una crescente centralizzazione del governo e del potere. Del resto, Ilvo Diamanti aveva già parlato, a proposito del governo di Berlusconi di allora (2001-2006), del governo di Milano «a Roma» e di una nuova singolare formula istituzionale: il «federalismo statalizzato».


Ampliare l’area del consenso
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Non c’è dubbio che ora il cammino da intraprendere sia difficile e lungo. Il problema di fondo è come conquistare maggior consenso elettorale nel Paese. Allargare l’alleanza e ampliare l’area del radicamento, sono infatti due strategie molto diverse. Nel primo caso, si sommano i voti che ciascuno apporta, custodendo gelosamente la propria identità. Ma si tratta di un’operazione conservatrice, indebolita dalla contraddizione tra unità dell’alleanza e diversità dei suoi componenti, e instabile per la tensione tra le identità che ciascuno si sforza di preservare.

Nel secondo caso, si tratta di ridisegnare la propria identità. Il processo è più lungo e complicato: Anthony Giddens ricorda che il successo di Tony Blair venne dopo dieci anni di duro lavoro sul campo. Ma se si punta ad ampliare l’area di consenso, bisogna mettere in gioco la propria identità in un processo evolutivo che necessariamente guarda al futuro e che, se ha successo, produce risultati stabili, come dimostra proprio l’esperienza inglese.

Per conquistare nuovi elettori, bisogna essere disposti a liberarsi di vecchi schemi ideologici e a guardare la realtà senza pregiudizi. Ciò significa capacità di leadership, capacità di progetto. E una cultura politica del primato dell’individuo, delle libertà, della cittadinanza. Abbandonando l’idea che fare politica equivalga a fare leggi, che i comportamenti degli individui debbano essere diretti da decreti e regolamenti e non agendo sui loro incentivi. Questa è l’attenzione «strutturalmente diversa» (per usare le parole di Paolo Mieli) che merita il Nord. Solo così potremo rimuovere, come dice Patrick, «la nostra parte di macerie» e promuovere un vero ricambio dei gruppi dirigenti.

La centralità degli individui.

Oggi si parla molto di identità e le azioni positive e le pretese collettive sono di moda. Ma l’etnicità non è oggi l’unica realtà. Al risveglio etnico si contrappone una forte spinta individualistica. Oggi lingua, fede, ecc. sono oggetto di una scelta individuale piuttosto che qualcosa di imposto sulla base dei vincoli della tradizione o della comunità di provenienza. E il salto emancipatorio da ciò che è subito involontariamente a ciò che è assunto volontariamente passa sempre per l’alleggerimento del peso determinante del passato a favore di un’uguaglianza di diritti in relazione alla scelta del nostro futuro sociale.

In sostanza, diminuisce l’importanza di ciò che è immodificabile (eredità, tradizione, condizionamenti biologici e così via) e si potenziano le possibilità di scelta personale, la possibilità, cioè, che ciascuno possa dar vita a un progetto esistenziale proprio. L’individualismo di oggi non è il thatcherismo, non è l’individualismo di mercato né l’atomizzazione. Anzi, a ben guardare, proprio le istituzioni del welfare (nazionali) hanno contribuito a liberare gli individui da alcune rigidità del passato. È infatti grazie all’occupazione, alla mobilità, all’istruzione che le persone sono incitate a costruire, a comprendere, a progettare se stesse come individui.

Quel che è in discussione è il ruolo dei poteri pubblici e delle istituzioni. Per i nazionalisti (italiani, sloveni o friulani) le istituzioni politiche sono strumenti per dare identità e vita ad un gruppo inteso come qualcosa che viene «prima» degli individui e delle loro effettive preferenze e identità. Io continuo a intendere le istituzioni come strumenti per aumentare la libertà di scelta degli individui e delle loro preferenze per come sono «da loro» percepite. Gianpaolo Gri in un bel libretto del 2000 ha scritto: «Sta qui – nella decisione di non adeguarsi, di rifiutare le determinazioni – la fonte da cui sprigiona fra gli uomini la diversità. Da essa è storicamente sprigionata anche la diversità friulana». Non si è friulani in maniera esclusiva e non si è friulani allo stesso modo. Siamo tutti un po’ meticci «nel corpo, nella lingua, nella religione, nell’anima».

E vivere al plurale è una condizione ineliminabile. Certo, oggi (come del resto ieri: «cuius regio, eius religio») c’è chi vorrebbe ad ogni etnia la sua lingua; ad ogni etnia e lingua il diritto al riconoscimento; ad ogni nazionalità il suo stato, ecc. Che poi vuol dire: sì la multietnicità va bene, ma ognuno a casa propria. Invece, come ha osservato su Il Gazzettino ancora Gianpaolo Gri, «credere nella diversità significa assumersi anche l’onere di garantirla: ma di garantirla in quanto tale, in ogni sua forma, indipendentemente dalla forza, dal numero, dal peso, dalla capacità di contrattazione».

Questo è il punto: il Partito democratico ha nel suo dna il rispetto della competenza decisionale degli individui. Del resto, la centralità della coscienza individuale è forse l’insegnamento più rivoluzionario della tradizione cristiana, che ha guidato e promosso la trasformazione delle società occidentali in senso liberale e democratico. Far perno sulla coscienza significa infatti avanzare l’idea che la legittimazione ad ubbidire venga dal consenso di coloro ai quali si chiede ubbidienza. Significa spostare il centro di gravità dei rapporti sociali dai luoghi del potere costituito all’individuo.

Mantenere la parola data.

Il messaggio di Bossi e Tremonti è un messaggio di conservazione sociale. Ma un paese non si governa sulla base della paura. Servono riforme economiche. Servono riforme istituzionali. Ciò significa mantenere le parole che abbiamo detto in campagna elettorale e batterci perché le riforme si facciano e non per bloccarle. Per dimostrare che il partito è cambiato davvero, ci vorrà tempo, determinazione e coerenza. Scorciatoie non ce ne sono. Nemmeno, come abbiamo visto, quella di scappare da Roma, di «smarcarsi dall’agenda politica nazionale».

Alessandro Maran

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27 commenti a La sconfitta di Illy e del centrosinistra

  1. Marisa ha detto:

    CONUNE DI UDINE
    Risultati finali – selezioni rilevate 100 su 100
    totale voti validi 47.208

    Furio Honsell: voti 24.907 – 52,76%
    Enzo Cainero: voti 22.301 – 47,24%
    altri voti sono risultati nulli o non validi.

    La destra ha cercato di schizzare “cacca” sull’Università di Udine, e ha perso….

    GRANDE HONSELL! E ora avanti con Udine città europea! Con Cainero avremmo avuto una Udine “adunata degli alpini” e altre cavolate…

    A proposito, Furio Honsell ha già con forza più volte dichiarato durante la sua campagna elettorale, che per lui la tutela della lingua friulana è un “valore COLLETTIVO fondamentale” in cui crede…

  2. Marisa ha detto:

    “Nel prossimo mandato amministrativo il Comune di Udine dovrà portare avanti i progetti realizzati in questi anni grazie ai fondi statali della L.482/99 (segnalatica e toponomastica, traduzione e aggiornamento del sito Web istituzionale, realizzazione del notiziario informativo radiotelevisivo e cartaceo) rafforzandoli e sviluppandoli ulteriormente, laddove sia possibile, ma dovrà anche impegnarsi in un nuovo ed efficacie percorso di progettazione. L’importanza di attivare anche nella città di Udine uno Sportello linguistico permetterà di offrire un ulteriore servizio alla cittadinanza e renderà organico e contestuale il percorso di politica lingusitica già avviato dall’Amministrazione comunale. (…).La promozione e la tutela del pluringuismo, VALORE AGGIUNTO DELLA NOSTRA REGIONE, SONO PUNTI FONDAMENTALI per rendere Udine capitale, non solo del Friuli, ma EUROPEA –
    Cordiali saluti. Prof. Furio Honsell”

    Con queste premesse Udine ha votato Honsell; Illy, con elementi del PD che hanno schizzato “cacca” sulla legge sulla tutela della lingua friulana, HA PERSO!

  3. Julius Franzot ha detto:

    Il plurilinguismo è un valore positivo in Friuli, dove non c’è stato l’odio etnico che ancora caratterizza Trieste. Per quanto il Triestino tipico si consideri mitteleuropeo e cosmopolita, l’ austriaco è ancora quello delle forche e lo sloveno quello delle Foibe. In quanto a lingue, a volte si ha l’impressione che già il Toscano sia una lingua straniera. Honsell, da triestino di origine austriaca, è una persona intelligente, ha capito che a Udine gli orologi girano diversamente e si è adeguato.

  4. Julius Franzot ha detto:

    Non mi occupo molto di politica estera, quindi mi limito a commentare Udine: si è trattato di una decisione che tenta di continuare la linea di Cecotti, alle cui idee Honsell si era abbondantemente (e giustamente) appoggiato. Come ho già scritto altrove, Udine è molto più sensibile di Trieste all’ internazionalità ed alla distanza da Roma. Honsell, persona intelligente ed aperta, lo ha capito ed ha premuto l’ acceleratore dove lo avrebbe premuto Cecotti.

  5. Piervincenzo ha detto:

    E di Vicenza, non diciamo niente?

  6. Tassisti per Francesca ha detto:

    Caro Franzot, mi sa che ti è sfuggito il geniale passaggio con cui il nuovo sindaco ha ricordato in televisione che sarà lui a risolvere i problemi della città, lasciati in piedi dalla precedente giunta…
    Sai com’è, mi pare che ormai le parole si lascino dire. A ruota libera, senza nemmeno tassametro.

    Ragazzi, godiamoci questa deriva totale, tanto i nostri anni felici li abbiamo già avuti! Giuro che comincio a divertirmi sul serio, mentre mesi fa pensavo fosse solo un modo per far scorrere il tempo. E comunque, mi dispiace per Marisa, ma Roma col voto di oggi si riconferma capitale. Noi pensavamo di essere nella merda…siamo dei provinciali.

  7. Tassisti per Francesca ha detto:

    Ah sì, il nuovo sindaco è Honsell…Che bell’uomo che era Candolini. E chissà se è ancora vivo Mizzau, magari Tondo trova un assessore alla cultura migliore di Capuozzo.

  8. Marisa ha detto:

    Tornado al lungo documento di Maran, pubblicato in questo Post, continua il suo (ovviamente questa è la mia personale opinione) delirio e ossessione da “centro sociale” contro le “odiate” identità territoriale. Come che la storia (millenaria in questo caso) fosse acqua. Come se nella Costituzione italiana a fianco dei diritti individuali non ci fossero anche i diritti collettivi: e l’art. 6 della Costituzione riconosce “un diritto collettivo”: il diritto di una comunità territoriale a veder riconosciuto il suo diritto alla lingua, il suo diritto alla sua identità formatasi lentamente con il passare dei secoli.

    Una ossessione la sua, antieuropea e in definitiva in linea con l’ipernazionalismo italiano di parte del PD (è in buona compagnia!) e della destra di Roberto Menia. Ovviamente tutte mie opinioni…

    Vorrei ricordare infine a Alessandro Maran che la Lega Nord friulana ha vinto “alla grande” schierandosi a fianco di Illy nella battaglia a favore della tutela della lingua friulana. Lega che si è spesa molto in consiglio regionale a favore di questa battaglia di civiltà …

    Vorrei ricordare ancora a Alessandro Maran che Tondo ha vinto “solo” grazie al grande risultato elettorale della Lega Nord friulana…
    Senza il grande risultato della Lega Nord, Tondo avrebbe perso e Illy vinto.

    Vorrei ricordare, come ultima cosa, a Alessandro Maran che schizzare “merda” (“cacca” è troppo elegante!), utilizzando il ventilatore della stampa, contro Illy e l’Europa dei Popoli….ha contribuito di certo ad aiutare la destra regionale, dando nel contempo una immagine arretrata e ipernazionalista di parte della sinistra regionale (il PD della provincia di Udine era sull’altra sponda e contro Maran…).

  9. enrico maria milic ha detto:

    “Con queste premesse Udine ha votato Honsell”

    marisa, calmati.

    ricordati che è un po’ eccessivo per gli altri umani dire che ogni avvenimento sul pianeta è riconducibile alla legge sul friulano.

  10. Matteo Apollonio ha detto:

    Che simpatico Valerio, tenta di confondere la disfatta capitolina con il risultato udinese. La prima vale doppio, anzi il triplo. Riflettere amici, riflettere… Via con la fanfara!

  11. Julius Franzot ha detto:

    Anche a me la posizione di Maran sul Friulano (e non solo) ha dato moltissimo fastidio. Concordo con Marisa sul fatto che la sua (e di parte del PD) sia una posizione antieuropea sul livello di quella di Menia. Non ha fatto bene alla causa dell’ Euroregione avere dentro la coalizione anche una forte anima nazionalista, in aperto contrasto con quanto voleva Illy. Maran è stato addirittura uno di quelli che ha utilizzato il “fuoco amico” sulla stampa prima delle elezioni.
    Non si tratta di mettere la questione del friulano al centro dell’ universo: quella è la cartina di tornasole per capire che atteggiamento (europeista o nazionalista) uno ha.

  12. enrico maria milic ha detto:

    julius,
    sono d’accordo con te: la posizione sul friulano è una cartina di tornasole.
    ma non possiamo pensare che il voto della ggente sia stato così tanto condizionato (nel bene o nel male) dalla promulgazione di questa legge. anzi.

  13. Marisa ha detto:

    Enrico, è vero, non credo neppure io che il voto della ggente sia stato così tanto condizionato dalla promulgazione della legge sul friulano. Altri temi hanno sicuramente pesato molto di più.

    Ma ti sei già dimenticato dei continui e incessanti (sono durati mesi….) editoriali contro Illy e la legge sul friulano firmati da elementi del PD triestino e goriziano? E chi è andato a Roma da Prodi e amici, a sollecitare il ricorso costituzionale contro la legge sul friulano? Non credi che tutto ciò abbia alla fine pesato sull’IMMAGINE PUBBLICA di Illy (presentato dalla SUA stessa parte politica – i PD di TS e GO – come lo “sciocco del villaggio” che si perdeva dietro una “ridicola” legge sul friulano)? Non ti ricordi più quanto lo hanno ridicolizzato per mesi?

    E alla fine abbiamo visto i risultati elettorali….
    Della serie: chi semina vento, raccoglie tempesta.

  14. enrico maria milic ha detto:

    marisa:

    nei voti nelle province di trieste e gorizia, correggetemi se sbaglio, illy ha vinto su tondo.

    quindi: se il piccolo era quel giornale con quegli editoriali e il piccolo è letto solo a trieste e gorizia (almeno in termini di massa), allora non credo tu abbia ragione.

  15. furlàn ha detto:

    Non credo neanche io che la legge sul friulano abbia inciso nei voti a Gorizia e Trieste. Mi fermerei all’accorpamento delle elezioni come principale causa della sconfitta di Illy. Puntare il dito contro altre cose forse rischia di essere poco onesto nei confronti di quanto è stato fatto in questi 5 anni che ripeto sono stati positivi per tanti aspetti, meno per altri. Tondo inoltre ha fatto evedentemente un lavorìo di lobbying migliore di quello di Illy se è vero che la prima ed indiscussa nomina è stata quella dell’assessore alla sanità.

  16. Marisa ha detto:

    Enrico, si perde anche quando la percentuale dei voti cala in maniera fortissima.

    Nel 2003 Illy a Trieste aveva avuto, se non sbaglio, più del 63% di voti, mentre oggi a Trieste ha si vinto, ma superando di pochissimo il 50% dei voti (i dati precisi non sono andata a cercarli, ma non dovrei essere lontana dai dati reali).

    Che fine ha fatto il 13% (più o meno) di voti?

  17. Marisa ha detto:

    Fonte sito della regione FVG

    Elezione Presidente – DATI: COMUNE DI TRIESTE:
    ——————-
    ELEZIONI REGIONALI 2003 – COMUNE DI TRIESTE

    ILLY 62,70% pari a 70.276 voti
    GUERRA 35,48% pari a 39.764 voti
    ————–

    ELEZIONI REGIONALI 2008 – COMUNE DI TRIESTE

    TONDO 50,76% pari a 63.107 voti
    ILLY 49,28 pari a 61.316 voti
    ——————-

    Ossia nel comune di Trieste – FONTE SITO DELLA REGIONE – nel 2008…..HA VINTO TONDO con circa 2.000 voti in più rispetto a Illy!

  18. enrico maria milic ha detto:

    ho detto province e non comuni.

    ad ogni modo qua tu mischi tutto a caso.

    basta con sta discussione

  19. Marisa ha detto:

    O.k. basta con questa discussione.

    Ti faccio solo presente che il dato elettorale del Comune di Trieste (che poi è il 95% della provincia di Trieste) è molto importante, anche perchè ora avremo la resa dei conti tra il PD friulano (emarginato in regione e che comunque ha rimandato al mittente gli ordini del segretario regionale del PD e HA FATTO DI TESTA SUA nelle elezioni comunali di Udine, vincendo!) e il PD triestino che fin’ora ha sempre comandato in regione e perso perfino a Trieste – comune(dove Tondo ha VINTO su Illy!).

    Lo stesso Sergio Cecotti, ex sindaco di Udine, ancora mesi fa aveva affermato: “attenzione al rischio triestinizzazione del PD”: ovviamente inascoltato. Allora Cecotti aveva consigliato – ovviamente inascoltato – Moretton come segretario regionale PD….

    Comunque, chiudo la discussione…

  20. enrico maria milic ha detto:

    leggo solo ora con calma questo articolo.

    sono contento che maran mi citi anche nel suo testo: w bora.la. e complimenti a maran che si legge anche i blog e, a differenza di altri come omero, ha l’umiltà di dare qualche peso a questa umile elitaria forma di contributo alla comunità.

    poi, nel merito di quanto scrive maran. copio-incollo una delle ultime frasi del suo articolo:

    un paese non si governa sulla base della paura.

    maran finisce male, molto male, il suo articolo.
    sconfessa le emozioni degli esseri umani.
    non sa maran che le comunità si muovono politicamente e spesso e volentieri in base alle emozioni provate dai singoli e che, quasi come una sostanza letale o benefica, si trasmettono da persona a persona?
    ecco maran l’illuminista e quindi repubblicano e nazionale: la sua è un’ideologia che sconfessa la carne di cui siamo fatti. che mette le parole sopra le emozioni degli uomini .
    ma se uno vuole analizzare le dinamiche politiche onestamente deve bandire questa retorica che bolla la paura come conservatrice e come conservatrici tutte le risposte possibili alla paura. chi analizza la politica deve onestamente tenere conto delle emozioni.

    Nel 2003 il centrosinistra aveva opposto un imprenditore «cosmopolita» (Illy, appunto) ad una esponente della Lega (Alessandra Guerra) impegnata nella promozione di un’idea etno-culturale delle diversità della Regione. Ma Illy, strada facendo (e per me, che quand’ero segretario dei Ds ho fatto i salti mortali per candidarlo, inspiegabilmente), ha fatto sua proprio «quella» idea e, con essa, il tentativo di ricostruire identità e senso sulla base di un passato idealizzato e la tentazione di reagire alle sfide del nuovo quadro competitivo opponendo alla (ormai logora) bandiera del mercato quella (oggi di moda) della «comunità».

    questa considerazione lascia il tempo che trova perchè maran non spiega (ovviamente) ai suoi lettori che:

    – anche maran vuole proporre un’idea di comunità, proprio come illy. solo che maran, a differenza di illy, ha in mente esclusivamente un’idea di comunità repubblicana, nazionale e italiana la cui ideologia ho delineato nel mio pezzo originario. a ognuno l’ideologia che preferisce.

    – purtroppo, però, maran non sa come includere le culture delle comunità sul territorio nella sua ideologia repubblican-nazionalista.

    poi:

    Per questo la legge sul friulano è stata, come ha scritto domenica scorsa Paolo Segatti, un’occasione persa «per rispondere in modo diverso da quello auspicato dalla destra alla domanda di difesa delle identità in un territorio plurale». Per questo Illy ha fatto ricorso ad argomenti etnici per giustificare la specialità; ha finito per proporci come (improbabile) modello la Confederazione Svizzera; ha rispolverato il Patriarcato di Aquileia e brandito la stessa Euroregione come motivo per «fuggire da Roma». Non ha funzionato. Anche perché, lo ripeto, non c’è verso di scappare. Come ha confessato Flaubert, «Madame Bovary, c’est moi». Roma siamo noi. Per sincerarsene, basta entrare in un ufficio pubblico qualunque. E desiderare di trovarsi in una «diversa» Regione implica anzitutto «rifare» la sua amministrazione. Rimarrebbe da chiedersi: non ce l’abbiamo fatta o non ci abbiamo neppure provato?

    – perchè il modello svizzero è improbabile? maran non lo dice. chi lo sa?

    – a me non risulta che illy abbia mai tirato fuori il patriarcato di aquileia come modello. l’identità che maran mette tra illy, promozione della legge sul friulano e fanta-revanscismi è un salto logico che non fa onore a maran

    – non ci vedo nulla di male nel fuggire da roma. qua a maran ci vorrebbe un po’ di relativismo. visto che maran si preoccupa di come funziona la nostra amministrazione pubblica (e fa bene, bisognerebbe migliorarla e assai), farebbe bene anche a confrontarla con l’amministrazione pubblica di città come roma: una città sommersa dai rifiuti, la cui vita quotidiana dei cittadini è alienata da un traffico indecente, la cui scarsa qualità dell’efficienza pubblica è uno smacco per tutti i contribuenti (cittadini del friuli – venezia giulia compresi).

    il peggio maran lo tocca qua, però:

    Euroregione è un’espressione ambigua che può voler dire cose molto diverse tra loro……

    come da mia precedente analisi, maran non smette di voler imporre lezioni. maran è particolarmente attento a inserire nella sua ideologia nazional-repubblicana, soprattutto quando gli conviene, i distinguo legali su cosa è coerente col nostro quadro giuridico.

    la legge si può interpretare fino a un certo punto, direbbe maran. su questo maran ha ragione ma l’aspetto legale spicciolo, per me, è marginale.

    le regioni e gli stati-nazione possono conferire alle euroregioni (realizzate in base al regolamento gect) quanto credono necessario dei loro poteri amministrativi. maran, in sostanza, obbietta ad illy: tu hai venduto un progetto ideale che non ha a che fare con le reali potenzialità politiche dell’euroregione.

    qua, la retorica di maran sottace dei punti importanti.
    mi spiego.
    immaginiamo che l’euroregione si faccia davvero e la regione FVG (per come capisco io i poteri della regione FVG) conferisca all’euroregione tutti i suoi poteri amministrativi in materia di: trasporti, sanità, servizi per il lavoro e l’assistenza. la slovenia fa lo stesso, il veneto idem, la carinzia idem e le due contee croate idem con patate.

    pensiamo solo all’esistenza (utopica, ora come ora) di un sistema integrato che riguarda tutta l’area dell’euroregione sui servizi pubblici di sanità e trasporti: ne sarebbero interessati tutti i cittadini dell’euroregione nella vita di ogni giorno e nei momenti più cruciali della loro vita.

    se le premesse legali della costituzione dell’euroregione non sarebbero state politiche, è abbastanza evidente come la realtà vissuta da parte dei cittadini dell’euroregione diverrebbe molto, ma molto densa in termini politici: cittadini di una stessa area unita nelle infrastrutture e quindi in moltissimi aspetti della nostra vita comune.

    non è un caso se esistono i gect: a istituirli è stata la strategia tutta politica dell’unione europea.
    è questo il grande progetto europeo cioè dell’europa unita che ovviamente ci deve riguardare a noi dell’adriatico settentrionale molto più che ad altri.
    quali sono, su questo scenario, le aspettative di maran? vuole abbandonare “l’idea che fare politica equivalga a fare leggi”?

    gli interessa o meno che il parlamento romano acconsenta a questo tipo di obbiettivi per chi vive da queste parti? come vuole condizionare, da goriziano, la politica romana in questo senso? oppure si adagia sulla buona volontà di veltroni che deve rappresentare altre mille lobby?

    a me questo interessa sapere e non dei problemi ipotetici in sede legale, parlamentare e costituzionale.
    mi interessa sapere la posizione politica di maran, non quella in materia legale. il patto costituzionale è una formula vuota se non garantisce le forme di cittadinanza e le identità delle persone.

    la costituzione è carta straccia se non garantisce, come spesso accade oggi, quelli che maran chiama “antifascismo” (ma chiamiamolo ‘nuove forme di lotta alla xenofobia e alla violenza’ e, allo stesso tempo, ‘una percezione di sicurezza da fornire ai cittadini’), “welfare” (che è un concetto ormai vecchio che oggi dovrebbe essere più legato a quanto uno può stare nel mercato del lavoro e a come spende i suoi soldi, anche rispetto ai servizi pubblici) e “interdipendenza” (qua maran dovrebbe preoccuparsi di più della nostra interdipendenza coi concittadini sloveni nell’UE che della nostra interdipendenza con le regioni lontane della penisola).

    infine maran scrive:

    Dubito perfino che, per l’avvenire, le identità locali, lo spirito autonomistico, le fratture territoriali, il contrasto tra società e politica, possano trovare ancora «rappresentazione» nella riedizione di liste civiche e movimenti separatisti o nella rivendicazione etnica. E neppure nello «spettacolo del Nord-Est» (proteste, convegni, mass-media, ecc.) degli anni scorsi. Oggi le cose sono cambiate. Dopo aver a lungo inseguito il modello catalano, quello scozzese e quello bavarese, le proteste dei produttori e degli autonomisti si sono spostate a Roma.

    questo è molto vero e più di quanto spesso vorremmo far supporre su questo blog.
    ma è anche vero che a questi territori nordestini manca, oggi, una vera e solida rappresentanza politica: il pd è totalmente assente da un radicamento innovativo in questi luoghi. la lega pensa niente popodimeno a un’euroregione con la lombardia. ma, soprattutto, non esistono mezzi di comunicazione di massa che rappresentino le istanze di questi territori. non è un caso, per me, se il direttore del piccolo è molto più interessato a fare editoriali sulla politica romana che su quella ‘locale’.

    quest’ultima – della rappresentazione di questi luoghi in termini mediatici – è la sfida che abbiamo ben chiara su bora.la. abbiamo bene in mente che i cittadini di quest’area di identità ne hanno una, nessuna e centomila: tra queste c’è quella di essere decisamente stufadizi di una politica smaccatamente insensata in luoghi palpabilmente inaccessibili.

    la nostra è una chiarezza, mi pare, invidiabile rispetto al dibattito che è totalmente privo di queste coordinate in altri luoghi politici.

  21. Matteo ha detto:

    L’attenzione alla politica romana temo sia un fenomeno scatenato dalla pigrizia di occuparsi della specificità territoriale. Il fatto poi che quotidianamente mamma tv dia un aiutino a tenere vivi i vari polpettoni tematici della settimana, aiutano i nostri direttoroni della carta stampata a tritare all’infinito l’aria che li circonda.
    Rispetto all’On. Maran: ci pensi su, se i coltivatori vanno a Roma, ci vanno spesso perchè gli enti locali sdoganano, sonnecchiano, delegano e si spartiscono troppo spesso la tortina senza colpo ferir. Non vorrei sembrar maliziosetto, ma ci pensi ugualmente.

  22. Julius Franzot ha detto:

    Ottimo commento di Enrico Maria. Anch’io vedo in media come Bora.La una sfida, volta a dare il nostro piccolo contributo alla presa di coscienza europeistica, ad una visione dell’Europa che prescinda dagli Stati nazionali. Se i cavilli possono aiutare qualche conservatore (qualunque etichetta si voglia affibbiare) a perseguire fini nazionalisti, la Storia ha ampiamente dimostrato che le leggi devono seguire la civiltà, non il contrario. Se qui ci fosse un’esplicita volontà di definire nuovamente i raggruppamenti chiamati nell’ 800 “Stati nazionali”, alla lunga non ci sarebbe cavillo legale capace di fermare la volontà del Popolo. I fascismi, camuffati in qualunque maniera, hanno fatto il loro tempo e non si possono far resuscitare, come non può funzionare una “rifondazione” del comunismo realmente esistito.
    Per una volta devo dare atto a Menia di essere stato molto attento all’ evoluzione del pensiero e di averlo seguito, anche a scapito di una certa coerenza con quanto dichiarava una volta.
    Menia ce l’ha fatta, Spadaro un po’ anche, Maran no.

  23. enrico maria milic ha detto:

    da ‘la stampa’ di oggi:

    Il loft e il Paese

    LUCA RICOLFI

    La cosa che più colpisce, in questi giorni, non è quel che si dice sulle cause della doppia disfatta Veltroni-Rutelli, ma lo stupore con cui se ne parla. Non si può dire che la sconfitta fosse perfettamente prevedibile, ma sembra che le sue dimensioni abbiano preso un po’ tutti alla sprovvista, come se politici, giornalisti, commentatori, studiosi non si fossero accorti di quel che passava per la testa della gente.

    Tale stato d’animo degli osservatori rischia di portare fuori strada nella ricerca delle ragioni di questo improvviso ribaltamento degli orientamenti politici dei cittadini. Chi è stupito va a caccia di cause nascoste, sottili, difficilmente visibili a occhio nudo. C’è chi dice che Veltroni avrebbe copiato Berlusconi, inducendo gli elettori a snobbare la copia e preferire l’originale. C’è chi dice che Rutelli avrebbe strizzato l’occhio ai preti, e troppo disdegnato i temi laici: il consiglio è di fare come Zapatero. C’è chi invoca l’effetto band wagon: da sempre gli italiani hanno il vizio di saltare sul carro del vincitore. C’è chi, in modo vagamente tautologico, invoca un generico «vento di destra»: l’Italia va a destra perché così soffia il vento. C’è chi, infine, si rammarica che solo Berlusconi sappia «interpretare la pancia del Paese»: a quanto pare quando vince la destra è la pancia che parla, quando vince la sinistra è la testa che ragiona.

    Ma forse, più semplicemente, abbiamo trascurato due fatti macroscopici, che non hanno attirato su di sé l’attenzione proprio per la loro ovvietà ed evidenza. Il primo fatto macroscopico è il discredito del governo Prodi, legato all’indulto, all’esplosione della criminalità, agli aggravi fiscali e burocratici, al drammatico aumento delle famiglie in difficoltà (+57% negli ultimi 12 mesi). A quanto pare i dirigenti del Pd non si sono resi conto di quel che la gente ha passato negli ultimi due anni. Naturalmente gli sbagli del governo non sono l’unica causa delle sofferenze e delle paure degli italiani, ma ignorarne la portata è stato una imperdonabile leggerezza politica. Giusto o sbagliato che fosse, dopo due anni di governo dell’Unione gli italiani sentivano il bisogno di voltar pagina: come si poteva pensare che si affidassero a chi instancabilmente ripeteva che quel governo aveva ben operato?

    Il secondo fatto macroscopico è in realtà un non fatto, ovvero una clamorosa omissione. La sinistra italiana, a differenza della sinistra inglese a metà degli Anni 90, non ha ancora voluto compiere la sua rivoluzione antisnob, ossia quel percorso di rottura con il mondo dei salotti che – secondo Klaus Davi – fu una delle carte vincenti con cui Tony Blair riuscì a resuscitare il consunto Labour Party, riavvicinandolo alla gente comune e riportandolo al governo del Paese dopo il lungo regno della Thatcher (Di’ qualcosa di sinistra, Marsilio, 2004). Omissione curiosa, visto che – sul piano comunicativo – il primo problema della sinistra italiana è la sua immagine elitaria e anti-popolare, il suo presentarsi come una squadra di autocrati illuminati, di seriosi e impermeabili custodi del bene.

    Di questa drammatica distanza dalla sensibilità popolare, di questo deficit di radici sociali, Veltroni è parso del tutto ignaro. Cercando di conciliare tutto e tutti, nascondendo sistematicamente le difficoltà in cui il governo uscente aveva cacciato il Paese, pensando di maneggiare con semplici esercizi verbali la protesta delle regioni più operose, Veltroni ha mostrato di non aver capito né quanto profondamente il governo Prodi avesse diviso l’Italia, né quanto i simboli del Palazzo e della politica romana siano invisi alla gente comune (era proprio il caso di chiamare Loft la nuova sede del Partito democratico? E di chiamare «caminetti» le riunioni dei dirigenti che contano?).

    Con l’immagine salottiera e poco ruspante che la sinistra post-berlingueriana si ritrova addosso, con la sua mancanza di radicamento nel territorio, con la sua distanza culturale dalle regioni del Nord, presentarsi alle elezioni con un candidato premier che è la quintessenza del bel mondo di Roma, delle sue terrazze e dei suoi salotti, era già un azzardo notevole. Non rendersi conto dell’azzardo, e non prendere alcuna contromisura compensatrice, è stata un’incomprensibile follia.

    Qualcuno, già me lo sento, dirà che la politica seria è un’altra cosa, e che è da qualunquisti rimproverare a Bertinotti le frequentazioni mondane, o ai dirigenti del Pd di riunirsi davanti a un caminetto, in un appartamento che amano chiamare il Loft. È vero, quel che conta è capire la realtà, e se ti riesce meglio davanti a un caminetto non c’è niente di male. Il punto, però, è che questi signori il contatto con la realtà sembrano averlo perso completamente. A forza di parlarsi tra loro non sanno più in che Paese vivono. Se la gente li vede come una casta, non è tanto per i loro privilegi, ma perché i loro simboli sono quelli di un mondo inarrivabile e separato, lontano mille miglia dal mondo di tutti noi.

  24. pierpaolo ha detto:

    enrico

    bell’articolo, che più semplicemente si può tradurre con la figuraccia di Fuksas ad Annozero.

    il problema è che quell’atteggiamento, sicuramente in vari gradi e tonalità è presente nella stragrande maggioranza degli elettori di questa sinistra, per i quali chi vota lega è un fesso che si beve la balla della sicurezza (e tra questi mi sa che ci sei anche tu!) e chi vota pdl è un ignorante che non sa cos’è l’algebra..

  25. enrico maria milic ha detto:

    pierpaolo,
    io penso che la gente sia molto condizionata dai media nazionali che dipingono un problema sicurezza che in termini pratici è MENO reale di quello che i media vorrebbero.
    penso che la lega si faccia portavoce di un malessere realmente esistente nella gente.
    che questo malessere sia fondato in problemi così tanto urgenti: no, non lo credo.
    ma questa mia analisi non credo che sminuisca il lavoro di rappresentanza politica di questi problemi che viene fatto da fedriga e dalla lega . anzi, avete il mio plauso perchè vi fate carico dei problemi della gente. questo vale fino a quando non sconfinate nel razzismo che, per esempio, in fedriga non ho riscontrato minimamente.

  26. pierpaolo ha detto:

    enrico

    ti ringrazio per i toni usati, ma non credo che quel razzismo di cui parli tu lo abbia riscontrato in me come in altri leghisti.
    io penso soltanto che sul problema dell’immigrazione si faccia una montagna di demagogia con la scusa dell’accoglienza a tutti i costi e, peggio ancora, la si faccia a danno di tutti noi.

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