30 Aprile 2007

Quel 30 aprile di Trieste liberata: un’idea positiva di italianità

da Il Piccolo del 28 aprile
articolo di Patrick Karlsen e Stelio Spadaro

Il professor Dario Groppi, patriota antifascista, cattolico democratico e persona misurata che generazioni di studenti del Liceo Dante hanno conosciuto bene, faceva parte di quella schiera di insegnanti della scuola triestina che seppero essere maestri di senso civico, prima ancora che delle loro materie di competenza (si pensi a Silvio Rutteri, a Livio Pesante, ad Adriano Mercanti, a Rodolfo Verzegnassi, per citarne solo alcuni).

Groppi amava raccontare nei particolari il colpo di mano con cui Marcello Spaccini aveva liberato, nella notte fra il 29 e il 30 aprile 1945, il presidente del quarto Comitato di Liberazione Nazionale di Trieste, don Edoardo Marzari. La coraggiosa iniziativa mise Marzari nelle condizioni di recarsi nell’attuale piazza Dalmazia, per dare l’ordine di insurrezione cittadina contro i tedeschi occupanti.

Ricordava Groppi come fosse stato Luigi Frausin, tempo prima, a proporre a don Marzari di presiedere il Cln triestino. «Dobbiamo fare anche qui il Cln come nelle altre parti d’Italia», gli disse Frausin. E Marzari accettò, conscio di essere la persona più adatta: sacerdote, non aveva una famiglia da esporre a rappresaglia dei tedeschi.

E così, dalle coinvolgenti parole di Groppi si passava con facilità alle intensissime pagine di Carlo Schiffrer, Ennio Maserati, Galliano Fogar, Giovanni Paladin. E di Roberto Battaglia: lo storico e partigiano che nella sua fondamentale Storia della Resistenza italiana (Einaudi 1953) dedicava al 30 aprile triestino adeguata attenzione.

Nell’autunno del 1944, dopo la cattura di Luigi Frausin – l’autorevole comunista di Muggia soppresso dai nazisti in Risiera – l’unità del Cln triestino si infranse: unico caso in Italia, i comunisti ne uscirono per allinearsi sulle posizioni annessioniste jugoslave. Fu una decisione, quella di porsi fuori dal Cln, che indebolì la Resistenza cittadina anche perché contribuì a diffondere, fino al Clnai di Milano, la taccia di nazionalismo rivolta al Comitato di Liberazione giuliano.

Questo contesto rende ancor più significativa la scelta di dar vita all’insurrezione cittadina del 30 aprile, che fu guidata sul campo dal Corpo Volontari della Libertà del colonnello Antonio Fonda Savio. I membri del Cln erano pienamente coscienti dei rischi dell’operazione, ma anche del dovere di assumerli.
Qualche decennio fa, lo storico inglese Dennison Rusinow ha colto appieno il significato politico e civile di quell’azione e il valore di coloro che la promossero: «fino alla fine un gruppo ristretto ma coraggioso di uomini audaci e votati alla causa – così li ha descritti Rusinow – fedeli ai loro ideali e alla ferma convinzione, a cui erano già pervenuti da tempo, su quale fosse, per loro, la sola via percorribile».

Quella via portava alla testimonianza armi in pugno di un messaggio insieme esistenziale e politico, valido per il presente e per il futuro: era affermata a Trieste la presenza di un’italianità non nazionalista ma liberaldemocratica.
Socialisti come Schiffrer, azionisti come Paladin, cattolici come Marzari e Spaccini, liberali come Fonda Savio si posero in continuità con una tradizione politica e culturale che poteva contare, in città, su un robusto retroterra. E si dimostrarono acuti interpreti del loro tempo: tanto nella denuncia delle responsabilità del nazionalismo italiano e del fascismo, quanto nell’allarmato giudizio sul regime comunista in via di formazione in Jugoslavia.
A cosa serve ricordare tutto questo oggi?

Il punto è che quell’episodio ci racconta di Trieste, dell’Italia e dell’Europa evocando un’idea positiva di italianità. Ci parla di uomini e donne che si sacrificarono per tenere legato il binomio di libertà e patria, di democrazia e futuro.

I protagonisti del 30 aprile in larga misura furono messi da parte nei decenni successivi. Finirono immeritatamente emarginati, sopraffatti da due “monopoli”. Da un lato il monopolio di un’italianità chiusa, intollerante e livorosa, alimentata fino ai giorni nostri dal nazionalismo e dal neofascismo; dall’altro il monopolio di una Resistenza comunista a direzione italo-slovena, appiattita su uno schema antifascista logoro, unilaterale e insincero. I due monopoli hanno incoraggiato, e a loro volta sono stati rafforzati, dall’indebita e studiata confusione tra due categorie che andavano e vanno distinte, il patriottismo e il nazionalismo.

Tutto questo, negli anni, ha impedito di porsi in ascolto delle non poche ragioni di Trieste. Ha prodotto un’inveterata incapacità di comprendere che la tendenza di questa città, in diverse situazioni, non è stata quella di esprimere il deprecabile nazionalismo aggressivo del passato, bensì un mero patriottismo difensivo. Un’autodifesa di fronte alle conseguenze dell’irreparabile dissoluzione della propria regione. E di fronte al nazionalismo espansionista del regime comunista jugoslavo, nei primi anni del dopoguerra.

Oggi noi cittadini democratici di Trieste, italiani e sloveni, possiamo essere consapevoli del significato profondo del 30 aprile 1945. In particolare l’Italia dovrebbe commemorare con orgoglio chi allora fu capace di imboccare, ai confini orientali del Paese, la strada alternativa ai totalitarismi; gli uomini e le donne che colsero la drammatica posta in gioco racchiusa nelle giornate finali della Seconda guerra mondiale, e scelsero il nesso di democrazia e patria contro il fascismo e il comunismo.

All’esperienza del 30 aprile – che sarà celebrata come ogni anno da Fabio Forti e dall’Associazione Volontari della Libertà al Masso della Resistenza nel Parco della Rimembranza – Trieste può attingere oggi come a un fertile patrimonio ideale e civile della propria storia.

Ricordare quella data di sessantadue anni fa aiuta a ragionare sull’identità democratica di Trieste e dell’Europa: nel presente e nel futuro.

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12 commenti a Quel 30 aprile di Trieste liberata: un’idea positiva di italianità

  1. Scusate, ma in questo modo mi sembra che si affossi tutta la Resistenza che, in assoluta buonafede ed adesione ai principi dell’internazionalismo, combatteva al fianco dei Partigiani Jugoslavi. Tutti da condannare? Tutti da dimenticare?
    Mi vengono i brividi quando vedo i politici di sinistra parlare il linguaggio nazionalista della destra.

    FDC

  2. Arlon ha detto:

    “Mi vengono i brividi quando vedo i politici di sinistra parlare il linguaggio nazionalista della destra.”

    Sinistra? Che sinistra?

  3. quella che nel TERZO MILLENNIO ragiona in termini di “nazionalità”, “confini”, “noi – loro”, “italiani – slavi (già il fatto che usi il termine ‘slavi’ la dice lunga…)” e cose simili che, francamente, aborro.

  4. pk ha detto:

    Nessuno condanna i partigiani italiani che in buona fede combattevano a fianco di quelli sloveni e croati.
    Non si dà un giudizio sui singoli (come quasi mai si dovrebbe dare), ma su un movimento e un sistema.
    Qui si condanna il comunismo, e si condanna una certa Resistenza che nei fatti tanto internazionalista non si mostrò.

    Infine le sarei grato se mi indicasse il punto in cui nell’articolo compare la parola “slavi”.

  5. Riguardo alla parola “slavi”, mi riferivo in generale al fatto che, purtroppo, anche la sinistra la usa. Non mi riferivo nella fattispecie all’articolo in questione.

    Un esempio: perfino un Capo di Stato, il nostro, ha parlato di “annessionismo slavo”, quasi che le colpe fossero di popolo. E poi, quale popolo? Gli “slavi” vanno dal Mar Baltico al Mar Nero. Ma queste cose le saprà meglio di me.

    Tornando al resto, c’è in generale una tendenza sistematica ad affossare parte della Resistenza e nello stesso tempo ad accusare alcuni movimenti partigini di “pulizia etnica” riguardo a ciò che è accaduto nelle zone orientali. Mi permetto di usare una frase che il Prof. Ginzborg ama ripetere: “Le parole sono pietre”. Parlare, a pochi lustri dalle ultime guerre balcaniche, di “pulizia etnica” potrebbe far pensare che ciò che è successo 60 anni fa in Istria sia dello stesso tipo di ciò che è successo, ad esempio, a Srebrenica 15 anni fa. Conosco benissimo la Bosnia, conosco bene le vicende del nostro confine orientale e accomunare le due cose nello stesso concetto di “pulizia etnica” mi sembra improprio. Ma forse – e stavolta non guardo a sinistra, per fortuna – c’è chi ha interesse proprio a questo: a far credere in tutta Italia che gli “slavi” siano dediti – come qualcuno ha affermato – per DNA alla “pulizia etnica”. Dichiarazioni di un razzismo tale che mi fa pensare di essere negli anni ’30 e non nel III millennio. Stride un po’ il fatto (ma questo nelle altre parti d’Italia lo sanno?) che complici di quei crimini furono anche molti partigiani italiani. Un po’ strana una pulizia etnica in cui un italiano uccide un altro italiano…

    Un’altra cosa: ho vissuto 6 anni a Trieste, per poi tornare a Roma. L’ultima cosa che vorrei è che nella mia città attuale, e/o nel resto d’Italia, si respirasse tra qualche anno lo stesso clima che c’è nel capoluogo giuliano. Parlo del clima nei cofronti degli (jugo)slavi. Un clima che, con altri 10 febbraio come l’ultimo, potrebbe davvero espandersi al resto della Penisola. Col concorso di molta parte della sinistra.

    Ultima riflessione: il 27 gennaio – giustamente – si commemorano le vittime della Shoah; il 10 febbraio – giustamente – si commemorano le vittime delle foibe. Quando si commemorano le vittime di quella che gli storici hanno definito “italianizzazione forzata delle zone alloglotte”? Le vittime appartenenti alle comunità di cittadini italiani di lingua slovena, croata, occitana, tedesca, ecc. ecc. che subirono le violenze fasciste in quanto “diverse” non meritano “memoria” in questo nostro Paese?

  6. Vorrei ancora aggiungere alcune riflessioni.
    La contraddizione, a mio avviso, è già nel dire “idea positiva di italianità”. Quale sarebbe l’idea “negativa” di italianità.
    Prima di arrivare a Trieste non mi sono mai neanche posto il problema dell’italianità. Cos’altro potrei essere se non italiano? Amo la filosofia scozzese, ma mangio la pasta all’amatriciana e l’abbacchio “scottadito”. Parlo con un inconfondibile accento romano, potrei forse spacciarmi per la controfigura di Sean Connery? Se domani mattina mi mettessi il KILT e girassi per le vie di Edimburgo recitando gli “Essays” di David Hume, come minimo si metterebbero tutti a ridere.

    Forse per idea “negativa” di italianità si intende la tendenza anti-(jugo)slava che si respira in certe zone. Ma quella non è italianità. Essere PER L’ITALIA, non vuol dire essere CONTRO gli altri. Dunque, chi sventola la bandiera italiani gridando contro gli “sc’avi”, non esercità italianità. Lui non è PER la bandiera italiana, ma solo CONTRO la bandiera slovena e/o croata.

    In questo senso, da parte della sinistra, ci vorrebbe più coraggio. Partecipare ai convegni che trattano l’esodo e le foibe è sacrosanto, ma non puntare il dito su quelle frange, purtroppo non minoritarie, che non sono PER la memoria, ma sono CONTRO sloveni e croati, mi sembra vergognoso.

  7. pk ha detto:

    Condivido la sostanza quello che ha scritto e ne sono lieto.

    In generale la Repubblica per troppi anni e per tante ragioni ha posto in sordina tutto quanto è accaduto al confine orientale, i torti inflitti e i torti subiti. Ora che il discorso pubblico dimostra una certa attenzione verso quelli subiti, tanto più è doveroso portare al vasto pubblico la memoria delle ingiustizie e dei dolori arrecati agli sloveni e ai croati durante il fascismo. Sui quali peraltro ha riflettuto a lungo una parte avvertita e significativa di storiografia italiana.

    Ha centrato anche la definizione (almeno per quanto cercava di esprimere il testo, per contrasto) di italianità “negativa”. Credo che dall’articolo emerga piuttosto chiaro il rifiuto del nazionalismo italiano, nelle sue manifestazioni del passato e del presente.
    Il guaio è che sotto questa categoria si è tentato per molto tempo di di far rientrare esperienze e sensibilità molto diverse. Una confusione comoda tanto al nazionalismo italiano quanto alla cultura politica di estrema sinistra, entrambe interessate a esercitare una sorta di monopolio delle memorie. E quindi a sminuire, screditare e silenziare chi aveva agito per sganciarsi sia dall’uno che dall’altra.
    Grazie per l’attenzione.

  8. Bene, spero allora che la sinistra triestina si attivi al più presto perché sia istituita o una Giornata per la commemorazione delle vittime del fascismo, parlo dei cittadini italiani “colpevoli” di parlare un’altra lingua. Per loro, in questo Paese, al momento non c’è “memoria”. Come ha ricordato Renzo Nicolini su OSSERVATORIO BALCANI lo scorso 9 febbraio, lo strumento c’è:

    http://www.osservatoriobalcani.org/article/articleview/6759/1/44/

    “Per questo credo che la Repubblica Italiana debba saper fare un passo avanti per quanto riguarda il “riconoscimento” di quanto avvenuto sul confine orientale dal 1918 in poi (da quando cioè questa zona è passata all’Italia) superando quel luogo comune post-bellico di “Italiani brava gente” che permise tra l’altro la rimozione collettiva più completa degli eccidi compiuti dai generali Roatta , Robotti e Graziani in Slovenia o dal Tribunale speciale di Trieste, molto “attivo” contro gli antifascisti sloveni.

    Credo che lo strumento per tutto ciò ci sia e sia a portata del nostro Parlamento: propongo che la legge 92/04 venga modificata nel titolo e nell’articolato al fine di rendere più esplicito ciò che genericamente si indica con “più complessa vicenda”, citando cioè espressamente, accanto alla tragedia “dei martiri delle foibe e dell’esodo”, quella “delle minoranze linguistiche slavofone vittime della politica di snazionalizzazione operata nel ventennio fascista”.”

    *Renzo Nicolini è vice-presidente del Circolo di cultura istro-veneta “Istria” (www.circoloistria.it)

  9. pk ha detto:

    L’auspicio autentico è che passi legislativi in direzione del rispetto delle memorie di tutte, tutte le vittime del Novecento giuliano vengano fatti insieme dai tre Stati, Italia, Slovenia e Croazia. Nella cornice dell’Unione Europea.

  10. arlon ha detto:

    come no quotar sto ultimo commento?

    ..diversi giorni del anno per comemorar eventi quasi contemporanei tra de lori no fa altro che causar ulteriori separazioni. Una roba che, sempre che no ghe sia fini specifici de drio, no xe proprio el caso far.

  11. Quoto anch’io!
    Dico solo che il fatto che un altro Stato faccia pochi passi avanti in questo senso non giustifica il nostro Stato a non farne.

    Suvvia, diamo il buon esempio!

  12. cristina ricotti ha detto:

    come sempre bravo ciao cristina

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